Scrivevo di come sia affascinante atterrare a Roma di notte, da Nord.
E poi non ho scritto più, ché già ero a Casa (e questo dovrebbe bastare come motivazione del non scrivere, essendo impegnata a godermi tutto e tutti), in più ero tornata per lavorare e quindi tempo passato a fare niente come scrivere non ce n'è stato. Ma poi sono tornata.
Tornare a Namur significa di solito atterrare all'aeroporto di Charleroi: da lì autobus e poi, stavolta, un'ora di attesa per il treno (i post sui treni arrivano, sono già mezzi scritti) che poi con i suoi buoni quaranta minuti arriva a destinazione. E su quel treno ha cominciato ad affacciarsi la sonnolenza, dovuta alle ore di sonno perse durante le due settimane (troppe persone da vedere, troppo poco tempo nonostante tutto), alla tensione da esaltazione costante dell'essere a casa che scemava, alla consapevolezza di essere alla fine di un viaggio che comincia ad essere routine: non mi sono addormentata, sono semplicemente andata un po' fuori fuoco, proprio come può succedere quando si fa un percorso a cui si è abituati e per cui ormai inseriamo il pilota automatico (anche su questi automatismi avrei un post, ma questo è solo in testa per ora). Non ero quindi attenta a dove fossimo e a quanto mancasse, avevo lo sguardo fisso fuori dal finestrino ma non guardavo davvero.
Charleroi e Namur sono collegate, oltre che da strade e dalla linea ferroviaria, anche da un fiume, la Sambre, che proprio a Namur va dolcemente a perdersi nella più grande Meuse.
La linea ferroviaria e il fiume dunque si accompagnano, allontanandosi solo per riavvicinarsi fino ad intersecarsi (per lo meno, visti dall'alto), scambiandosi i posti solo per ricominciare questa sorta di lenta danza: le acque quindi si intravedono spesso quando si è sul treno, e i tratti in cui le sponde sono illuminate sono spesso gli unici segni distinguibili nel buio della tarda sera.
Dicevamo che ero lì, fuori fuoco, persa a fissare ad occhi aperti il finestrino, alternando il percepire il paesaggio esterno (comunque buio e privo di punti di riferimento al di fuori dei centri abitati) a quello del riflesso dell'interno, senza vedere né l'uno né l'altro.
Fino a quando non mi sono ritrovata a seguire con lo sguardo il fiume, a seguire il susseguirsi di lampioni sulle rive il cui andamento... riconoscevo! Inconsciamente, devo aver registrato il percorso dell'acqua che precede l'entrare in città, e averlo riconosciuto come il preludio dell'arrivo. E infatti un minuto più tardi siamo passati vicino a quell'ansa che sì conosco bene, perché casa mia non si vede, ma è proprio lì dietro. A quel punto è comparsa la scritta sullo schermo del treno dell'imminente arrivo a Namur, ma ormai lo sapevo già.
Mi ha colpita la naturalezza con la quale prendiamo punti di riferimento senza accorgercene, mi ha colpita la delicatezza con cui il profilo del fiume è gradatamente passato dall'essere un elemento sfocato e impreciso sullo sfondo ad assumere contorni delineati e riconoscibili, che dolcemente hanno risvegliato la coscienza. Un po' come fa l'odore del caffé appena preparato amorevolmente da qualcuno mentre ancora dormiamo in una pigra domenica mattina.
E mi ha colpito il parallelismo che mi è balzato in mente tra l'Appia, che da Roma centro mi accompagnava sempre più freneticamente all'aeroporto, e la ben più placida Sambre.
Casa?
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