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Namur, Belgium
Gattofila, razionalmente disordinata, ossessivo-compulsiva part-time.
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giovedì 8 marzo 2018

Le festa che non è.

Premessa: post ad alto contenuto di parole volgari. Io vi ho avvisato.

Gli auguri per l'8 marzo non li ho mai davvero capiti. Forse è che nel tempo è diventata la "Festa della donna" (che, non vorrei sbagliare, ma mi sembra una cosa solo tutta italiana), mentre la sua denominazione originale e mantenuta praticamente ovunque è "Giornata internazionale della Donna". Ed è una giornata di rivendicazione, di denuncia, di riflessione.
Quindi perché gli auguri? Capisco però che facciano un po' parte dello status quo, io non è che ci sono arrivata dieci anni fa al fatto che non ha molto senso. Quindi rispondo "grazie" e sono contenta del pensiero ricevuto. Quindi se siete in questa categoria, spero non vi mortifichiate, non è quello l'intento del post.

Però.

Però, che siate donne o uomini, NON fatemi gli auguri prima di esservi assicurati di non fare una delle seguenti cose (la lista non è esaustiva).
  • Insultate qualcuna dandole della "puttana" (o sinonimi): la vita sessuale di una donna non dovrebbe essere di alcuna rilevanza ed essere esposta a giudizi, che sia in contesto o meno. Non siamo santuari inviolabili, non ci deterioriamo con l'uso, non dobbiamo incarnare l'ideale di una futura madre consacrata. Io non ho mai sentito un uomo insultato per la frequenza o la promiscuità della sua vita sessuale. Se un uomo tradisce il/la partner gli si dice che è uno stronzo. Se lo fa una donna, "stronza" non è abbastanza, non rende l'idea: ha usato la vagina, dunque è una puttana.
  • Pensate che una donna violentata abbia comunque un minimo di colpa o se la sia cercata. Il discorso globale sarebbe lungo e complicato, quindi limitiamoci a ciò che conosciamo meglio: il mondo "occidentale" e "civilizzato". Ecco, nella nostra realtà, non ci dovrebbe essere nessun "ma". E quanto questo "ma" sia intrinseco nella nostra cultura secondo me si capisce guardando queste vignette che esemplificano il consenso in un contesto non sessuale: è tutto piuttosto ragionevole. Ma per esempio per me riuscire a trasporre la ragionevolezza di un paio di queste cose in ambito sessuale è stato più complicato, la prima volta che l'ho vista: ed è incredibile, perché in fondo parliamo del nostro corpo, che dovrebbe essere una delle nostre cose più preziose. Se state pensando "eh ma l'uomo non lo puoi provocare, poi non riesce a controllarsi", trovai geniale e molto triste questo tweet:

    Io lo capisco che sia un pensiero automatico, ma dovremmo smetterla di inconsapevolmente trovare attenuanti animalesche che scarichino parte della colpa sulla vittima.
  • Partite dal presupposto che una donna debba volere dei figli. E soprattutto (quanto mi fa incaz innervosire questa cosa) al sentire "non sono sicura di volerne/non ne voglio" rispondete "eh, ma lo dici adesso, vedrai poi che più in là ti verrà voglia!". Siamo libere di decidere di procreare o meno, e sorpresa!, non riguarda che noi. Proclamare che la nostra volontà sia poi soggetta incontrovertibilmente al famoso orologio biologico è un'offesa bella e buona alla nostra intelligenza. Ah, e una può chiaramente cambiare: questo non vi dà il diritto di asserirlo come certezza.
  • Colpevolizzate una madre perché non si annulla per i propri figli. Vi aspettate da lei un ruolo diverso (al di là di ciò che è fisicamente impossibile per un padre fornire, e che normalmente si esaurisce nel primo/secondo anno di vita) da quello del padre. Se un padre parte per lavoro per due settimane è un po' triste, ma in fondo è per lavoro; se una madre parte per due settimane, sta abbandonando i propri figli, quell'egoista.
  • Usate espressioni come "donne con le palle". Se state alzando gli occhi al cielo, sappiate che il cambiamento cognitivo passa anche dal linguaggio. Una donna per essere forte, indipendente e raggiungere i propri obiettivi non ha bisogno di attributi maschili. E non sto dicendo che tutte le donne sono forti, indipendenti e raggiungono i loro obiettivi, il che mi porta al punto successivo.
  • "Le donne sono...", "le donne fanno...". Con calma. Se è vero che esistono dei caratteri comuni, è anche vero che fare di tutta l'erba (circa metà della popolazione mondiale, viaggiamo sui tre miliardi e mezzo, suppergiù) un fascio è assurdo. Io, come donna, sono molto diversa dalla donna tipo, così come lo sono tante delle donne che conosco. E allo stesso tempo vedo in me degli stereotipi femminili, ma pensare di descrivermi con "le donne" è fuori dal mondo. A tal proposito, c'è da leggere questo post della sempre brava A.
  • Pensate che non ci sia un problema di genere, che il femminismo non serva più, che quando si cerca di richiamare l'attenzione sulla disparità e il maschilismo che sono presenti ancora ovunque, si stia in realtà esagerando. Per me è ancora più grave quando a pensarlo sono delle donne: l'imprinting della società è talmente potente a volte da farsi sottomettere propria sponte. 
La lista sarebbe, chiaramente, appena cominciata. Questi mi sembrano però i punti su cui è più facile scivolare, quelli che si ripropongono quotidianamente, quelli che possono svelare che anche se idealmente siamo tutti per la parità, nei fatti poi non è sempre detto sia così. Più in generale, un buon mantra (a volte complicato da seguire, ma lo trovo molto utile per capire quante sovrastrutture abbiamo in testa) è questo:
[...] if you criticize X in women but do not criticize X in men, then you do not have a problem with X, you have a problem with women.
Chimamanda Ngozi Adichie - "Dear Ijeawele, or A Feminist Manifesto in Fifteen Suggestions"

Ps: Alla fine di un seminario oggi lo speaker ha voluto aggiungere un riferimento alla Giornata Internazionale delle Donne. Ha concluso dicendo una cosa del tipo "[...] perché voi donne portate la primavera.". E niente, capisco perfettamente le sue buone intenzioni, ma io sono riuscita a pensare solo ai cambiamenti d'aria dopo una cena al messicano. Perché anche noi donne facciamo le puzze.

martedì 6 marzo 2018

Caffè.

Ho smesso di bere caffè.

Ho smesso di bere caffè quando sono da sola.

Il mio rapporto col caffè è sempre andato un po' a fasi: non ne ho bevuto fino ai 17 anni. Della serie che non mi piaceva il tiramisù per via del gusto del caffè. Poi siamo andati in gita con la scuola, qualcuno ha avuto la brillante idea di vedere chi sarebbe riuscito a non dormire per più tempo: chissà perché sembrava così importante non dormire, soprattutto considerando che non è che il tempo speso svegli fosse poi di gran qualità, una volta che il sonno cominciava a farsi largo e a spegnere i cervelli.
Durante quella mattinata ne presi quattro, di caffè. È cominciata così.

Dall'università in poi le mie giornate sono sempre cominciate con almeno un caffè doppio: macchinetta da due se da sola, mezza da quattro se Madre era nei paraggi. Caffè post pranzo immancabile al Bar Rosso dell'università: anni e anni di caffè lì e quasi mai non bruciato. Era però una tradizione (oltre che comodità e spilorceria, quello dell'altro bar costava di più), e poi ad un certo punto ci hanno fregato quando hanno cominciato a preparare la cremina, e allora sotto poteva esserci anche acqua sporca. Ci hanno fidelizzato con la cremina, non c'è stato più un punto di ritorno.
Che nel pomeriggio ci fossero lezioni o sessioni di studio, c'era il caffè delle quattro (circa).
Durante la sessione d'esami, c'era il caffè delle qualunque: in giornate particolarmente intense arrivavo tranquillamente a sei/sette. Ringraziamo la brachicardia di base, o non sarei forse qui a scriverne. Ci serviva davvero il caffè? Forse no, ma era un buon modo per prendersi una pausa senza sentirsi in colpa, aggiornarsi sulla vita tra un teorema e l'altro e costruire cose. Su alcuni di quei caffè ci abbiamo eretto torri che poi sono diventati castelli, su altri non restano che pallidi tentativi in muratura ma, ehi!, nessuno nasce carpentiere.

Poi Namur. Uno dei primi acquisti è stata ovviamente la Moka, per la mattina. E quel profumo di caffè vero dava sempre l'idea di essere un po' più vicina a casa (cliché, che vi devo dire).
Il caffè disponibile all'università fa del suo meglio, ma non ha niente a che vedere col sapore che ti aspetteresti: gli ho dato qualche chance, ma dopo una tazza particolarmente orrida ho lasciato perdere. Addio caffè durante la giornata.
E poi non so bene cos'è successo. Poco a poco una macchinetta intera è sembrata troppo. Forse una mattina ho finito il caffè, e la mattina dopo non è sembrato un dramma non averne. Forse una volta il mio stomaco ha chiesto una pausa, forse ho cominciato a scordarmi il caffè lasciato a raffreddare troppe volte di seguito.
E ho scoperto di non averne fisicamente bisogno: sopravvivo lo stesso, sono sveglia lo stesso. Sarà che forse non ho più così bisogno di sentirmi un po' più vicina a casa. E poi, oh, adesso quando ne prendo un po' mi fa davvero effetto*.

Ora il caffè è per occasioni speciali.
È per i weekend con G., con le colazioni a letto e gli esperimenti in cucina.
È per quando sono a casa dai miei, quando la mattina trovo la macchinetta pronta per esser messa sul fornello preparata amorevolmente da Madre. Che poi ne prende sempre un goccio.
È per quando passo a trovare le mie sorelle e cognati e nipoti, qualunque sia il Paese in cui questo avviene.
È per quando torno all'università a Roma a lavorare, e che pranzo sarebbe senza caffè? (Il bar è lo stesso, i baristi no, il bruciato è rimasto.)
È per quando recupero il tempo con gli amici in Italia, dopo una lauta mangiata o prima di uscire la sera, ché l'età avanza e senza caffè a mezzanotte uno ha voglia di fare le nanne. E quei caffè non hanno perso l'aggiornarsi sulla vita, il riaffermare che siamo qui, ancora, aspetta che aggiungiamo un altro piano alla torre est.

Ora il caffè è per occasioni speciali, e non vedo l'ora di sentirne il gorgoglio.




* Si annoverano nella lista di occasioni con aggiunta di caffeina anche quelle rare volte in cui dormo una manciata di ore.

martedì 16 gennaio 2018

L'attitudine all'ombrello.

Non mi riferisco all'espressivo gesto dell'ombrello (che credo sia del tutto prerogativa italiana): oltretutto, sarei curiosissima di vedere i Belgi esibirsi in un modo così assertivo. Non so perché, ma non riesco proprio ad immaginarmeli...

Per attitudine all'ombrello intendo il rapporto che si ha nei Paesi in cui il tempo fa schifo più a nord dell'Italia. Al di là di alcune cose che sono veramente inconcepibili (tipo i calzoncini corti in mezzo alla neve), di solito lo spirito d'adattamento funziona così: uno arriva e vede gli altri che si comportano in una certa maniera e pensa che siano matti; mantiene le proprie abitudini; soccombe al fatto che se gli altri, che in quel Paese ci sono nati e vissuti, fanno determinate cose forse un motivo c'è; si adatta ai costumi locali.
Io ci ero già passata, a proposito dell'ombrello, quando ero stata a Londra, ma a quanto pare tre anni d'Italia mi avevano poi fatto dimenticare la nuova Conoscenza appresa e quindi arrivata a Namur è ricominciato tutto da capo.

Il primo concetto che è stato vitale imparare è che non importa se la mattina ti svegliano i passerottini cinguettando e porgendoti fiori delicati appena sbocciati; non importa se il cielo è azzurro terso quasi da far male agli occhi quando lo guardi; è irrilevante che il sole splenda e facciano 25 gradi. In un Paese in cui in un giorno hai tutte e quattro le stagioni, l'ombrello devi averlo sempre. Di più, devi averlo soprattutto se la giornata comincia splendidamente, perché a quel punto la tentazione di vestirsi per il bel tempo spesso prende il sopravvento e allora bagnarsi come un pulcino, senza troppi strati a coprirti, è ancora peggio.

Il secondo e ben più importante segreto da imparare è che avrai sempre l'ombrello con te, ma non lo userai quasi mai. Per due motivi principali. Che in realtà sono tre, ma procediamo con ordine.
Innanzitutto l'ombrello usato è bagnato. Essendo bagnato, bagna. E allora devi trovare un posto dove metterlo, e poi te lo devi ricordare, e poi se nel frattempo ha smesso di piovere ma non si è asciugato te lo devi tenere in mano... Certo, questo succede dappertutto, ma quando la pioggia è data 1:1 tutti i giorni, l'idea di affrontare tutto questo tedio quotidianamente spaventa più di qualche goccia d'acqua.
In secondo luogo, difficilmente la pioggia in Belgio conosce mezze misure. La cosa più tipica è la fastidiosa e senza senso pioggerellina a nebbia; assomiglia alla sensazione che si ha nelle torride estati quando si passa sotto ad un vaporizzatore di acqua: sai che c'è, la percepisci, ma resta comunque quasi impalpabile.
L'ovvia differenza è che qui non è torrida estate quando succede. Ovviamente.
Quando capita 'sta piaga (nda: spesso), l'uso dell'ombrello è potenzialmente ridicolo, perché la quantità di pioggia è minima e a maggior ragione si passa per lo strazio dell'ombrello bagnato per una sciocchezza. D'altronde è pur sempre acqua quella che si attraversa, per cui senza adeguata copertura si finirebbe per arrivare bagnati. La soluzione in questi casi è una giacca impermeabile col cappuccio.
Se piove seriamente invece, il 90% delle volte c'è un vento talmente forte che usare l'ombrello è inutile, addirittura controproducente: la probabilità che venga rotto o si apra "al contrario" è tale da non giustificare nemmeno il più blando dei tentativi. In questo caso non c'è speranza.
La giacca impermeabile col cappuccio è comunque sempre una buona idea.

[Il Woolrich certificato fino a -40 gradi e con il cappuccio più grande che io abbia mai visto è stato l'acquisto della vita.]

Nel mio caso particolare c'è un terzo motivo per cui l'ombrello fa da appendice onnipresente ma quasi mai usata, ma riconosco come non si applichi a tutte le situazioni: le distanze sono poco... distanti. Tipicamente per andare da un posto all'altro, per me che vivo "al centro", non ci vogliono più di dieci minuti a piedi. Tragitti corti, niente soste, alla fine non ne vale la pena. Ci pensavo proprio ieri, mentre andavo al corso di francese sotto una pioggerella non eccessiva ma comunque significativa: avevo l'ombrello, ovviamente, ma ho preferito non usarlo perché non ho ritenuto la situazione valesse l'ombrello bagnato.

Mi fossi vista due anni fa mi sarei data della cretina, ora mi sembra solo la scelta più pratica.
A parte per i capelli. Per i capelli no.
Se non avete idea di chi sia, non so se possiamo essere amici.
Ma ormai alla lotta contro l'umidità mi sto arrendendo. Quasi.

domenica 7 gennaio 2018

"Un'influenza in compagnia, un'influenza da sola" (semicit.)

Non sarò al top della mia forma fisica possibile, ma nonostante ciò fortunatamente non mi ammalo facilmente. Il più delle volte si tratta comunque di gnagnera, termine scientifico usato in famiglia per descrivere una sensazione di malessere generale tale da essere fastidiosa ma non invalidante (ad esempio, mal di testa, raffreddore e indolenzimenti ma senza febbre): quel genere di cose per cui piuttosto che uscire di casa ti incolleresti al letto ma che non sono sufficienti per non andare a lavorare, o per restare a casa senza un minimo senso di colpa.

La prima volta da quando mi sono trasferita che ho avuto un'influenza "seria" è stata un paio di mesi dopo il mio arrivo. Roba da non uscire dal letto per quattro giorni. Fortunatamente, la prevenzione e il caso hanno cooperato affinché sopravvivessi: da un lato avevo provveduto a rifornirmi di paracetamolo perché non si sa mai, dall'altro avevo fortunatamente sufficiente cibo da non morire di inedia. Non che abbia mangiato molto, la nostra tecnica di famiglia è restare idratati, cercare di prendere comunque la dose minima possibile di medicine ma soprattutto dormire in modalità letargo. Roba da cicli di sonno di 8-9 ore, intervallati da massimo un'ora di stop.
Quindi, dicevo, prevenzione e caso hanno fatto sì che io la passassi tranquillamente. Meno male, perché ero davvero da sola. Delle tre persone con cui avevo confidenza, due non c'erano e la terza era nelle mie stesse condizioni (la mia compagna d'ufficio: coincidenza?). E in ogni caso, con nessuna di queste c'era ancora un rapporto tale per cui sarebbero venute a vedere come stavo, ad assicurarsi che avessi mangiato almeno un minimo o a farmi semplicemente un po' di compagnia (anche via telefono).
Fossi vissuta a casa da sola in Italia avrei avuto processioni di gente desiderosa di essere aggiornata sulle mie condizioni di salute? No, ma ciò che importa sono quelle due o tre persone su cui puoi sempre contare, e che ci sarebbero state. E la famiglia, ça va sans dire.

Quando mi dicono "beata te che sei all'estero" ripenso sempre a quei quattro giorni: non avevo certo il vaiolo e infatti me la sono cavata egregiamente, ma stare male sapendo che non c'è nessuno a cui potersi appoggiare* è uno dei picchi massimi di solitudine che abbia mai raggiunto.

L'ultima volta che sono stata male invece è... adesso. Io e G. siamo tornati dalle vacanze qualche giorno fa, e ovviamente appena scattato il weekend è partito il Grande Malore: considerando che praticamente ogni volta che abbiamo incontrato un gruppo di amici durante le settimane in Italia c'era qualcuno che stava male, m'è andata anche di lusso.
È stato piuttosto improvviso, venerdì sera avevamo mille e uno progetti per il weekend e sabato mattina mi sono svegliata con tutti i possibili sintomi insieme.
Stavolta però non ero da sola. E io sono sicura che avere qualcuno che ti rimbocchi le coperte per assicurarsi che tu stia al caldo o che ti senta la febbre con la mano sulla fronte (e si, certo, c'è anche il termometro disponibile a venti centimetri di distanza, ma se non è validato dalla mano sulla fronte non serve a nulla!), che vada a fare la spesa e riempirti il frigo, che si accerti che tu beva abbastanza... io sono sicura che tutte queste cose funzionino tanto quanto il paracetamolo, anche se su un altro piano. Perché G. sarà pure ripartito per l'Inghilterra questo pomeriggio, ma nonostante io sia ancora un po' acciaccata sono sicura che domani mi sveglierò in piena forma e pronta ad affrontare non solo tutta la settimana, ma anche questo anno che già si preannuncia bello denso.
E nonostante io sia ancora un po' acciaccata e sia stata male davvero durante il weekend (il primo dei saldi, oltretutto!), non mi sento pervasa dalla solitudine di quei quattro giorni.

E oggi, oggi in particolar modo è importante, perché oggi sono due anni che sono a Namur. 




* Ovviamente, non mi riferisco a richieste d'aiuto serie. Per quello c'è il medico, o l'ambulanza. Parliamo di altro, di quelle piccole cose che potremmo catalogare come "pillole di calore umano".

domenica 8 ottobre 2017

Parlare tre lingue e peggiorarne due.

Fatto: quasi ogni giorno parlo tre lingue.
Tecnicamente, non c'è nulla da obiettare a quest'affermazione: italiano per parlare con tutte le persone che contano, il francese ormai quasi sempre per le interazioni quotidiane, l'inglese per quando il francese non è abbastanza, per il lavoro quando è importante essere sicuri di avere tutti i dettagli chiari, per aiutare alcuni del dipartimento ad impratichirsi.

Voilà, post finito. Alla prossima!

Ecco, no. Se tecnicamente parlo tre lingue al giorno, nei fatti la questione è leggermente più complessa. Innanzitutto bisognerebbe mettersi d'accordo su quale sia la definizione di "parlare una lingua": se intendiamo "esprimersi in una lingua al meglio delle proprie capacità teoriche", drasticamente il conto scende ad una (a volte nemmeno), ed è sorprendentemente il francese.
Perché se è vero che parlo tre lingue al giorno e che vivere in Belgio mi sta regalando la possibilità di imparare il francese essendone circondata, è altrettanto vero che le mie altre competenze linguistiche stanno peggiorando notevolmente.

L'ingleseCome abbiamo già visto, in Wallonia generalmente l'inglese non è diffuso. E anche all'interno dell'università, in cui uno si aspetterebbe una certa dimestichezza in più, è cosa rara trovare qualcuno che sia fluente: mediamente, chi lo parla ha un vocabolario molto tecnico e limitato, derivante dal materiale letto e scritto nel proprio campo di ricerca. Per il resto, stentano un po'.
Sono forse io uscita direttamente da un Oxford English Dictionary? Certo che no, e anzi direi che l'espansione del mio vocabolario abbia raggiunto negli ultimi anni una sorta di hiatus, per cui non ho imparato innumerevoli vocaboli nuovi (seppur qualche aggiunta ci sia stata).
Sono (ero!) forse io l'ultima degli sfigati in inglese? Nemmeno questo è corretto: nel mio momento di conoscenza massima della lingua, vantavo una certa fluidità, un discreto carnet di sinonimi e sfumature e quasi un accenno di accento di Londra. Certo, abitarci aiutava.
Si può quindi dire che in media il mio livello di inglese sia più alto rispetto a quello delle persone che mi stanno intorno, e questo ne sta determinando, paradossalmente, un peggioramento. Uno dei requisiti fondamentali della comunicazione, infatti, è l'efficacia: risulta quindi inutile, se non addirittura controproducente, utilizzare termini più corretti ma meno conosciuti avendo un'audience il cui livello di inglese è inferiore al proprio. All'inizio lo facevo, e di fronte all'espressione basita (F4, cit.) di chi mi stava di fronte mi toccava capire quale fosse l'inghippo e poi ripetere la frase modificando l'arcana parola con una più generica ma comprensibile; dopo un po' si capisce l'andazzo e non ci si prova più. Questo però determina il fatto che io mi stia abituando a parlare un inglese meno ricercato di quanto potrei, e della differenza mi accorgo quando vado in Inghilterra.

L'italiano. Whatsapp è meraviglioso per chi è lontano da amici e parenti perché permette di rimanere in costante contatto. D'altronde allo stesso tempo riduce la necessità e le occasioni in cui si parla a voce (o colma il fatto che queste occasioni non ci sarebbero comunque, in alcuni casi). Il mio interlocutore principale è G., il quale come me è nella posizione di parlare, leggere e scrivere una lingua straniera per la maggior parte della giornata. Capita quindi spesso che non ci sovvenga il termine corretto in italiano perché nella testa campeggia quello inglese o francese: all'inizio eravamo molto più disciplinati, commentandoci a vicenda con occhiatacce e sberleffi quando non riuscivamo a richiamare la parola; ora stiamo un po' cedendo, e capita più spesso che un eventuale inglesismo scorra notato ma non ripreso.
D'altra parte, il continuo confronto di lingua e cultura che avviene giornalmente con E.A., santa compagna di ufficio e di interscambio belga-italiano, fa sì che rifletta spesso sul significato e il contesto di alcune parole italiane, sui loro sinonimi e sfumature, per cui il fenomeno di "annacquamento" è leggermente limitato.

Paradossalmente, quindi, è il francese l'unica lingua che non sta peggiorando.
"Ma va' là!, che esagerazione! E allora i post che scrivi in italiano?".
Tra la scrittura e il parlato esiste una profondissima differenza: non si scrive quasi mai "in diretta". E meno male, sennò col cavolo che sarei riuscita a tradurre "recollect". Mi ci sono voluti solo cinque minuti, insomma.

domenica 24 settembre 2017

Les Fêtes de Wallonie, ovvero quella volta in cui i Belgi mi chiesero "ma sei proprio sicura di voler restare nel weekend?".

Lo scorso weekend* si sono celebrate (attenzione perché mi è plurale!) les Fêtes de Wallonie: come ogni anno, a metà settembre Namur si trasforma completamente per celebrare lo spirito e le tradizioni Walloni, richiamando persone da tutta la provincia (e oltre!).
Data questa nuova veste di Namur, mi sono venuti a trovare amici da tre Paesi (ma quanto siamo internazionali!) che avevano già visto la città e per cui questo twist sarebbe potuto essere interessante.
Anche dormire in sei in trentacinque metri quadrati circa è stato molto interessante.
(Sul dividere un unico bagno invece ormai siamo un gruppo già ampiamente collaudato, no problema.)

Oltre all'esorbitante quantità di gente che si trova in giro, la differenza fondamentale per la città la fanno gli stand che invadono le strade, e che si dividono principalmente in stand di musica dal vivo o dj set, di cibo e di peket.

Sulla qualità della musica non voglio esprimere giudizi, e certamente per alcuni dei gruppi dal vivo v'è una componente di tradizione e di cultura popolare che non mi appartiene e che non so identificare, rendendomi impossibile apprezzarne la presenza. Per altri, e in generale per quasi tutti i dj set, semplicemente non voglio fare l'antipatica e non avendo nulla di carino da scrivere, mi astengo...
È comunque molto apprezzabile lo sforzo di organizzazione che ha fatto sì ci fosse sempre un sottofondo musicale, e trovo molto bello che venga data la possibilità di esibirsi a così tanti gruppi. La sera vengono organizzati dei concerti veri e propri, con gruppi (pur sempre locali) che attraggono migliaia di persone.

Gli stand a tema culinario raccontano per lo più le tradizioni wallone e le produzioni locali del territorio: oltre a quelli in giro per le strade, nel giardino del municipio ve n'erano diversi posti in piccole casette di legno, tant'è che coi cappotti e il cielo grigio sembrava quasi un mercatino di Natale. Se avessi davvero lo spirito di cronaca in me, avrei fatto mille foto suggestive, ma siccome ci siamo andati avendo una fame da lupi, ci siamo lanciati alla ricerca del nostro pranzo: alla fine ho optato per un panino con hamburger di manzo, foie gras, affettato d'anatra, insalatina e una meravigliosa salsa di cipolle. Di questo abbiamo una rara immagine, ma solo perché dovevo intrattenermi mentre aspettavo con la bava l'acquolina in bocca.


Questa è stata la prima scelta, s'intende. Poi, visto che les Fêtes de Wallonie ci sono una volta sola all'anno, come rinforzino è stato aggiunto un altro panino con formaggio di capra prodotto dall'omino dello stand, pancetta, vinaigrette con aceto balsamico. Ah, e sempre un po' di insalatina, ché mangiare leggero è importante.
Inutile a dirlo, birre a profusione.

Per le strade, invece, si trovava un po' di tutto, dal simpaticone a base di maiale,
"Der majale n' se butta via gnente" suona meglio, diciamocelo.
ai mega pentoloni di tartiflette (patate, pancetta, cipolle e rebochlon, un formaggio tipico),
Mi si è impennato il colesterolo.

fino ad arrivare a numerosi stand di dolci, principalmente divisi in due categorie: gaufre (quelli che noi chiamiamo waffle) e... churros. Devo dire che ancora non mi è estremamente chiaro il perché i churros siano così tanto apprezzati, ma soprattutto che ci facessero in una manifestazione che celebra le tradizioni wallone, ma tant'è...

Protagonista indiscusso de les Fêtes de Wallonie è pero senza dubbio il peket. Si tratta di un liquore a base di ginepro che viene aromatizzato aggiungendoci sciroppi di ogni tipo: tipicamente non se ne acquista uno solo, ma viene venduto in "vassoi" con formule del tipo 6+1 gratis (ad un costo variabile, ma intorno ai 6-7 euro). Da notare come una delle varianti si chiami couilles de singe (letteralmente, "coglioni di scimmia"), a quanto pare perché l'aromatizzazione richiama una caramella così denominata: allora!, ora si spiega tutto...
Esteticamente grazioso, in fondo.
È uno di quei non rari casi in Belgio in cui non conta la qualità, bensì la quantità: non essendo molto alcolico, è necessario berne molti per cominciare a sentirne gli effetti e raggiungere quel così disperatamente ricercato stato di ubriachezza molesta.
E qui arriviamo al tasto dolente.
Una delle prime cose che si notano trasferendosi da queste parti è che i belgi, e gli studenti in particolare, non conoscono i propri limiti nel bere alcolici: o meglio, o se li scordano ogni volta o li ignorano completamente. È scena comune infatti il venerdì e il sabato (ma anche la domenica, il lunedì, il martedì...) sera vedere gente completamente ubriaca fuori dai pub o inginocchiata per strada a vomitare. E quando ci sono le feste universitarie, si capisce quanto una festa sia stata "di successo" a seconda della quantità di macchie di vomito e dell'intensità dell'odore di urina che si trovano per strada la mattina dopo.
Ah già, perché un'altra caratteristica dei Belgi è che pisciano letteralmente in mezzo alla strada senza alcun tipo di ritegno. Principalmente gli uomini, per ovvie facilitazioni anatomiche, ma anche le donne non si fanno problemi se trovano due macchine tra cui accucciarsi. Ma anche se non le trovano.
Questa mancanza di autocontrollo in situazioni come les Fêtes de Wallonie si manifesta ai suoi più alti livelli, soprattutto perché, e non è un fattore da sottovalutare, solitamente si svolgono il weekend successivo alla rentrée, l'inizio dell'anno accademico: questo implica che molti studenti, invece di tornare a casa per il weekend come normalmente succede, restano in città per festeggiare "col botto". E molti di loro sono al primo anno, per la prima volta fuori di casa, con un sacco di ghiaccio da rompere con i futuri compagni di corso. Il coraggio liquido è così disponibile, e così socialmente accettato...
Abbiamo visto scene incredibili: gente ubriaca ad orari improbabili, seduta sui marciapiedi a piangere, sdraiata in mezzo alla strada priva di sensi. Il tutto contornato da decine di persone che fanno pipì in qualunque angolo (e non), indipendentemente dal fatto che siano alla luce o al buio, vicino ad altri o lontano, cosicché quell'appiccicaticcio che senti sotto la suola delle scarpe sai perfettamente di cosa è un miscuglio ma tenti di dimenticartelo ad ogni passo.

(C'è da dire che la mattina dopo le strade sono intonse: il modo in cui tengono a ristabilire la pulizia della città dopo qualunque evento, che sia una festa o il mercato rionale, è commovente.)

Abbiamo visto anche tanta gente divertirsi genuinamente, tante famiglie che passeggiavano vivendo la città in fermento, concerti divertenti e molto gradevoli. Fino a poco dopo l'ora di cena, l'atmosfera è molto carina, e almeno una volta nella vita secondo me vale la pena di fare un giro.
Soprattutto, per la prima volta in molto tempo abbiamo assistito ad uno spettacolo di fuochi d'artificio davvero bello e con cose nuove, di quelle che ti fanno dire "Wow!" e poi restare con la bocca aperta. Fornisco qualche diapositiva (avevamo già ampiamente mangiato, mi sono potuta concentrare sullo scattare delle foto):


Quella sagoma squadrata che si intravede è il profilo della Citadelle.





In conclusione, sono stata contenta di esserci stata questa volta (l'anno scorso ero in Inghilterra), ma vedo probabile che io vada lontano durante la prossima edizione.
Magari dopo aver preso al volo un panino con hamburger, foie gras, anatra, cipolle. E insalatina.


* In realtà gli eventi per les Fêtes de Wallonie si protraggono per una decina di giorni, ma il culmine è durante il secondo weekend.

venerdì 15 settembre 2017

Scarpe da ginnastica e femminismo.

Eppure io non credevo potesse essere un'operazione così complicata.
In fondo, dovevo solo comprare un paio di scarpe da corsa.

Accade che siccome l'anno inizia per davvero a Settembre, mica a Gennaio (nonostante ciò che vogliono sempre farci credere), ci sia il solito buon proposito di muoversi un po' di più: tra l'altro esiste un centro sportivo dell'università, la cui tessera annuale costa agli studenti la bellezza di 35 euro, per cui non approfittarne sarebbe davvero un peccato.
La situazione che mi si presenta ma che non credo (ancora) sarebbe poi diventata un problema è che le scarpe da ginnastica che ho portato quando mi sono trasferita, già provate da anni di utilizzo, mi hanno abbandonata l'inverno scorso.
Tocca ricomprarle. Scarpe da ginnastica, nere, è praticamente già fatta.
Scartata l'idea di acquistarle online (preferisco provarle) e di andare da Decathlon (decisamente fuori mano), mi faccio un giro nel più grande negozio di sport di Namur. Entro, scendo al piano inferiore, cerco la parete dedicata alle scarpe da corsa da donna e appena alzo lo sguardo mi prende a momenti un attacco epilettico.

Rosa. Rosa sparato OVUNQUE. Non esiste un modello da donna che non abbia del rosa shocking: si va dalla delicata versione nera e rosa alla più spumeggiante celeste evidenziatore e verde acido. Col rosa shocking, s'intende. Sono uscita di corsa (ma senza le apposite scarpe), un po' traumatizzata.
Una cosa simile era già successa nello stesso negozio (che fa parte di una grossa catena) con il costume per la piscina: lì però è stata in parte colpa mia, perché essendo in periodo di saldi mi sono rifiutata di comprarne uno a prezzo intero, cosa che mi avrebbe permesso di rifuggire l'orrido colore. Pecunia non olet quindi non vedo perché gettarne via per delle sciocchezzuole. Che poi, in acqua, ma chi lo vede? Comunque.

Io il rosa lo detesto. Bene il viola, ancora ancora qualche sfumatura di fucsia, ma il rosa che è proprio rosa lo detesto. Detesto lui e l'associazione forzata col genere femminile che ci viene imposta dal gusto "sociale", con quella dicotomia inflessibile del blu per i maschi e il rosa per le femmine.
Anche da piccola non ho avuto la fase del rosa (non certo per motivi femministi, almeno consci), non mi è proprio mai piaciuto. Di conseguenza la sua imposizione, manifestata dal non avere scelta, mi infastidisce enormemente. Vorrei poter essere libera di scegliere, sempre e comunque, se e come manifestare il mio appartenere (e riconoscermi) al genere femminile.

È incredibile come, ad avere le antenne rizzate verso un determinato argomento, appaiano nella vita quotidiana e senza andarli particolarmente a cercare spunti di riflessione a tal proposito. Il dove, il come il quando e il chi sarebbero troppi e forse poco interessanti. Ma alla fine il succo della questione è questo: vorrei potessimo essere libere di scegliere, sempre e comunque, se e come manifestare il nostro appartenere e riconoscerci nel genere femminile.
Si, l'ho appena scritta la stessa frase, ma per me è cruciale: per spiegarvi perché, facciamo un passo indietro. Perché lo squilibrio è da entrambe le parti.

Essendo una giovine (?) donna (?) ancora nella fase di autodeterminazione nel mondo, la questione femminista è centrale nel mio approcciarmi alle cose. Già "femminista" è un termine che poco apprezzo, nel suo contrapporsi a "maschilista": se il maschilismo ritiene infatti l'uomo superiore alla donna, il femminismo dovrebbe porsi come obiettivo quello di rendere agli occhi della società uomini e donne come pari. Non uguali, perché siamo diversi in mille e uno modi, ma comunque e sempre pari. Però per semplicità lasciate che io continui ad usare femminista e femminismo, avendo questi significati in mente.
All'inizio, dovendo smuovere un sistema rigido ed immutabile, il femminismo ha dovuto tendere a degli estremismi. Si bruciavano i reggiseni, non ci si depilava e si rifiutava la tipica immagine della donna quale angelo del focolare, devota alla gestione della casa e alla crescita dei figli. Mi sembra normale: più forte è il vincolo, più violento deve essere il distaccarsene.*
Però poi i tempi sono cambiati, le cose si sono evolute: c'è ancora molta strada da fare, ovviamente, lunga è la via per la parità, ma la situazione è andata migliorando. Mi sembra però che il femminismo, e più certamente l'impressione che ne ha la società, non siano evoluti di pari passo.
C'è ancora quell'idea che una femminista vvvera, una donna indipendente debba ricusare qualunque ruolo, stile e convenzione tradizionalmente associati alle donne. E qui ritorna la frase sull'essere libere di scegliere, sempre e comunque.
Per me questo tipo di scelta non è concepibile e penso sentirei di star buttando la mia vita, ma se una donna nel pieno delle sue capacità mentali e in totale indipendenza (quindi non perché è ciò che ci si aspetta lei faccia, non perché è il suo ruolo predestinato) decidesse di restare a casa e non lavorare per dedicarsi al marito (o alla moglie!) e ai figli, chi avrebbe il diritto di giudicarla?
Se una donna che lavora, che ne so, nel mondo della finanza decidesse di vestirsi con abiti a fiori (appropriati, ma a fiori) rinunciando a quella pratica di mascolinizzazione che in certi ambienti è ormai la norma, perché dovrebbe essere intaccato il suo valore professionale agli occhi degli altri?
Etc, etc, etc. Mi si permetta di lasciare questa parte un po' monca, avendo dato giusto l'idea, perché avevo continuato a scrivere ma davvero non avrei finito più.

Quindi insomma, ero lì che pensavo che quelle scarpe rosa sarebbero dovute sparire dalla faccia della Terra, quando ho realizzato di aver scritto "incoerenza" dappertutto. Io il rosa lo detesto, ma se a qualcuna piace perché dovrebbe rinunciarci in nome della bandiera femminista? Perché dovremmo auto-imporci dei limiti in nome dello sforzo di eliminare quelli che ci vengono appioppati tutti i giorni da sempre?

Allora evviva le mensole di scarpe da corsa in tutte le declinazioni del rosa.
Ma che se ne trovino di rosse, verdi e blu, con Hello Kitty ma anche con i Pokemon, col fiocchetto ma anche senza nulla.

E per carità del Cielo, a me servono semplicemente nere.



PS: Secoli di mentalità non si cancellano in pochi decenni: il maschilismo si nasconde subdolamente anche nella lingua, e in tradizioni che ci sembrano assolutamente innocue. Due esempi su cui non mi dilungherò (ché altrimenti, più che un post diventa un libro), ma approfondirò volentieri qualora interessasse: espressioni come "quella è una donna con le palle" e il lancio del bouquet della sposa ai matrimoni.

PPS: Esistono certamente migliaia di paia di scarpe da corsa da donna "normali". Mi ha fatto però riflettere come non siano immediatamente accessibili.

* Una saliente parentesi. Consiglio spassionatamente la lettura di "Cara Ijeawele: Quindici consigli per crescere una bambina femminista", di Chimamanda Ngozi Adichie (https://www.amazon.it/Cara-Ijeawele-Quindici-femminista-Frontiere-ebook/dp/B06XDLRXQB). Affronta in modo pesato e serio la questione femminista, ma senza dogmi e in modo scorrevole. Un passo che ho evidenziato e che secondo me è un ottimo strumento per analizzare gesti e parole nella vita di tutti i giorni recita:
Spiegale che se critichi una certa cosa X nelle donne, ma non critichi la stessa cosa X negli uomini, allora non hai un problema con quella cosa, hai un problema con le donne.

Provate come esercizio a pensare ad atteggiamenti mal visti se adottati da una donna ma assolutamente normali se adottati da un uomo. Vi accorgerete che sarà come l'inizio di una valanga, una volta trovato il primo ve ne verranno in mente a migliaia: quanto è intrinseco in noi il concetto della donna quale presenza eterea e delicata?
Tra l'altro compie oggi 40 anni, ma si tratta solo di una fortuitissima coincidenza scoperta assolutamente per caso.


mercoledì 24 maggio 2017

Un post (letteralmente) pieno di comfort.

Comfort zone: quell'insieme di luoghi, persone e situazioni in cui ci sentiamo perfettamente a nostro agio. Può essere habitat naturale, rifugio o gabbia: è facile limitarsi a fare ciò di cui si è sicuri, ed è altrettanto facile precludersi delle esperienze o delle opportunità per paura di affrontare l'ignoto o il temuto. Si rischia allora di restare lì, nel proprio orticello, quando magari dall'altra parte c'è un intero mondo e attraversare la staccionata non sarebbe poi così difficile: se ci si provasse si scoprirebbe che a volte c'è addirittura un comodissimo cancello e non si deve manco fare la fatica di saltare a mo' di Olio Cuore.

Dicono che "La magia comincia al di là della tua comfort zone", ma non so se sia proprio sempre così; se da un lato è vero che per fare molte cose bellissime nella vita bisogna uscirne e affrontare un iniziale disagio, dall'altro l'idea che uno debba necessariamente discostarsi dalla propria quotidianità (fisica o mentale che sia) per trovare la "vita vera" è un po' limitata: la maggior parte delle volte è probabilmente così, ma mano a mano che divento più vecch saggia la lista degli assoluti con cui mi trovo d'accordo si riduce sempre più.

A questa cosa della comfort zone pensavo ieri, mentre alla fine di una giornata tranquilla ma lunga mi sono fatta forza e sono uscita di casa per andare in un posto in cui sapevo avrei dovuto parlare molto francese: di per sé non sarebbe un problema, non fosse che la mia capacità linguistica è inversamente proporzionale alla mia stanchezza. Questo implica che se la mattina sembro quasi un essere umano con qualche mese di francese alle spalle, a fine giornata mi trasformo in un gibbone sgrammaticato e titubante. E no, se ve lo steste chiedendo, non è una cosa simpatica.
In un momento di lucidità (o di bipolarismo, dipende dai punti di vista), per risolvere la situazione ho lanciato delle noccioline fuori dalla porta, il gibbone si è precipitato fuori di casa e la parte razionale ha chiuso la porta. E quindi niente, siamo andati tutti.

Personalità zoologiche multiple a parte, l'episodio mi ha fatto ruzzolare giù per la strada della memoria e, diamine!, sono anni che esco dalla comfort zone. In modi più o meno ovvi, più o meno conclamati, più o meno dichiarati, ma sono sempre lì, a cercare di spostare il limite un po' più in là.
Quello su cui i fautori della magia che comincia bla bla bla non si soffermano, però, è cosa succede dopo: magari sbaglio io, eh!, ma ho l'impressione che si parta dal presupposto che una volta messo un piede fuori, automaticamente si ridisegnino i confini e la comfort zone si adatti.
Mica vero.
Spesso succede, ed è una sensazione fantastica: si superano dei limiti, immaginari o reali che siano, e ci si rende conto che lo si può fare, che ciò che pensavamo impossibile per noi non lo è, e allora via, si apre un nuovo pezzo di mondo. Un po' come quando la sottoscritta, a cui in genere non piace il pesce, ha assaggiato con timore per la prima volta il sushi: amore a primo boccone, datemene ancora e per sempre, sono disposta a morirne (ok, l'esempio non è dei più edificanti ma rende l'idea).
Altre volte invece no. Sei lì, di fronte ad un certo tipo di esperienza e con passo deciso ti incammini, e per un po' la comfort zone sembra adattarsi; poi però ti accorgi che si, il limite lo stai spostando, ma funziona come un elastico: ti lascia andare per un po', ma tirandoti sempre indietro e tornando al suo posto appena lasci andare la presa. E allora ogni volta che vai in quella direzione è un po' come se fosse la prima, sembra di non fare progressi e di non cambiare lo stato delle cose. È frustrante, mette a disagio (per definizione), e dopo qualche volte trasmette un senso di sconfitta e di ineluttabilità, perché sai che indipendentemente dall'impegno che ci metti, quel dannato elastico tornerà sempre indietro.
Forse vuol dire che semplicemente non fa per noi: "la magia comincia al di là della tua comfort zone" è tremendamente semplicistico, perché non è detto che una cosa per cui ci sentiamo inizialmente a disagio una volta vissuta debba necessariamente trasformarsi in qualcosa di piacevole. È chiaramente fuori dalla mia comfort zone l'andare in giro nuda per strada, ma non è che se lo facessi una volta, allora andrebbe poi sempre bene: sarei solo ancora più sicura che non è una cosa adatta a me (e alla decenza pubblica e al codice penale o civile, se è per questo).
O forse è solo dovuto al fatto che affrontiamo situazioni a cui siamo per nostra natura più sensibili: le nostre difese sono più tenaci perché ne abbiamo più timore. Se non vi è niente di intrinsecamente negativo (come può esserlo l'andare in giro nuda per strada), forse vale la pena sforzarsi ancora un po', incamminarsi ancora una volta col passo un po' più sicuro della precedente, testare ancora la resistenza. Arriverà poi un momento in cui si riuscirà o ci si arrenderà, è probabile che la questione si riduca ad un discorso di testardaggine e sforzo mentale: forse vale la pena provare in ogni caso, può essere che il processo in sé sia una lezione sufficiente.
In fondo, da portatrice sana di capelli ingombranti ho sperimentato una grande verità: nessun elastico è per sempre.

sabato 6 maggio 2017

Il lusso nel viaggiare.

Se qualche anno fa qualcuno mi avesse detto che avrei vissuto all'estero, viaggiato abbastanza spesso per vedere posti nuovi, studiato per il Dottorato, avuto una relazione a distanza e per questo viaggiato molto spesso (ma senza posti nuovi), imparato una nuova lingua (ok, ci stiamo ancora un po' lavorando), etc etc, sarei stata sbalordita. E poi molto contenta ma incredula, perché ad un certo punto la mia vita stava prendendo tutta un'altra piega e comunque non avrei mai considerato certe possibilità. Però l'idea di essere sempre pronta a partire con lo zaino in spalla ha sempre avuto un certo fascino, per cui per quanto implausibile allora, mi ci sarei potuta immaginare tranquillamente.
Poi le cose sono molto cambiate, io sono molto cambiata, tutto è molto cambiato, la coda è molto cambi* ed eccomi qua, a farlo davvero.

Quella che la me di allora non avrebbe sicuramente immaginato è l'aspetto pratico di cosa voglia dire davvero il partire spesso con lo zaino in spalla. E una delle implicazioni è l'impegno in termini di tempo, energie e denaro. L'oculato uso di quest'ultimo, in particolare, determina moltissimo la qualità del viaggio (ovvietà per tutti quest'oggi!) e d'altronde per come sono stata cresciuta e per una buona manciata di senso pratico, tendo a scegliere l'opzione con meno fronzoli e più risparmio possibili, anche quando potrei permettermi di spendere un qualcosa in più. L'idea di base è che se mi spostassi un numero limitato di volte, quei venti o trenta euro in più non farebbero molto la differenza, ma parlando di decine di viaggi all'anno, il risparmio alla fine è considerevole.
Questo tipo di ragionamento si applica in particolar modo quando sono sul punto di prenotare un aereo: che ve lo dico a fa', Ryanair è una filosofia di vita**.
L'aspetto positivo di Ryanair è ovviamente il costo contenuto, che permette di muoversi a volte a prezzi ridicoli: l'anno scorso per Pasqua sono tornata a casa con 35 euro, a/r. Trentacinque euro.
L'aspetto negativo è... principalmente tutto il resto. Neanche più la puntualità è una garanzia, tra me e G. abbiamo collezionato ore di ritardo che se fosse una raccolta punti avremmo già ricevuto il set di pentole (aggiungendo, ovviamente, un piccolo contributo di 49,99 euro).
Il volo in sé, per quanto mi riguarda, è tremendo. Io ho la fortuna di addormentarmi facilmente in aereo, soprattutto ma non solo quando sono sul lato finestrino, e questo mi permette di evitare: vendite di panini caldi e patatine fritte (...), bibite fresche e snack; pubblicità a prodotti del duty free che eccezionalmente per oggi (e uno!) sono a tal prezzo vantaggioso; vendita di gratta e vinci il cui ricavato è devoluto in beneficenza che eccezionalmente per oggi (e due!) si possono acquistare al prezzo di 10 euro per 14 biglietti. D'altronde dormire non mi salva dal destino dello spazio minimo legale per le gambe: io normalmente viaggio per un paio d'ore ed è sostenibile, ma già quella volta che facemmo Roma-Oslo cominciavo ad innervosirmi intensamente per via del fastidio.
Gli aeroporti che normalmente si attraversano viaggiando Ryanair, poi, sono piuttosto deprimenti: dopo aver raggiunto 'sta landa desolata e lontana***, ci si ritrova in aeroporti piccoli, con due negozi in croce, pochi spazi per sedersi durante l'attesa, poche e discutibili opzioni per mangiare. Cerco di evitare il più possibile di mangiare in aeroporto, per questioni di gusto e, di nuovo, economiche, ma a volte è inevitabile. Nonostante la fame da lupi con la quale spesso mi ritrovo in queste situazioni, le possibilità per mangiare non stimolano di certo l'appetito; l'ultima volta che sono passata da Charleroi ho scelto il meno peggio, polpette al sugo e patatine fritte: lo so che immagine vi si è formata nella vostra testa, perché è la stessa che è affissa a "rappresentazione" nel menù da cui si può scegliere, ma è stato uno di quei casi di pubblicità ingannevole. Io che di solito fagocito il cibo, l'ho finito giusto perché non c'era altro. Pur di allontanare da me parte del calice, me ne sono rovesciata un po' addosso (true story, sono tornata a casa con una bella macchia rossa. Sulla camicia bianca.).

Voi starete leggendo e vi chiederete: ma questa, ma cosa vuole? Scrive un post intero per lamentarsi?
Chiariamo: sia ringraziata Ryanair e la possibilità che ci dà di viaggiare a poco, e di tenerci uniti (io e G., io e casa, casa e G., io e G. e casa). Solo che lo scorso weekend a differenza del solito Eurostar, per andare in Inghilterra ho preso l'aereo, e ho volato con British Airlines: al ritorno sono arrivata con largo anticipo al leggendario Terminal 5 di Heathrow, e ho avuto tempo di girarmelo un po'. Per cui sono ancora in quella fase "come potrebbe sempre essere VS come è di solito in realtà", ma mo' mi passa. Che ve lo dico a fa': a parte il negozio ufficiale di Harry Potter (sono uscita di corsa per salvare lo stipendio), era tutto un fiorire di negozi d'alta moda e di numerosi ristoranti più o meno cari.
E alla fine, io so' una ragazza semplice. Altro che Dior e Prada, il vero lusso è poter aspettare il volo così:



Yakisoba 1 - "polpette" 0.



* Colta la citazione?

** C'è anche da dire che a Roma l'aeroporto che serve Ryanair (a parte qualche volo particolare) è anche quello più vicino a casa: ha senso quindi che io atterri lì, e quindi devolva il mio danaro agli amici irlandesi, a prescindere dal minor costo.
** Di nuovo, in realtà Charleroi non è poi così più distante da Namur di Zaventem. Ma i collegamenti non sono così frequenti, ecco.

giovedì 2 febbraio 2017

Domenica.

Ho trasformato la scorsa domenica in un appuntamento lungo un giorno.
Con la persona più importante.

Ho puntato la sveglia ad un orario che mi avrebbe permesso di restare sotto il morbido abbraccio del piumone ancora per un po', senza traumi da risveglio improvviso.
Sono andata ad ascoltare un concerto della corale di una mia amica e ho canticchiato silenziosamente i molti brani che conoscevo (quanto sono più interessanti le parti dei contralti!).

C'era un bel sole, ne ho approfittato per andare a scattare un po' di foto per imparare a conoscere una reflex che mi ha aspettata per troppo tempo: ho preso una bici del servizio di bike-sharing, per spingermi più in là di dove sia mai stata, per fare anche un po' la turista. Ho preso freddo, tanto, soprattutto perché furbescamente non avevo i guanti.
Ed ho sperimentato quella sensazione di dialogo interiore: andiamo ché fa freddo, ancora dieci minuti, riprendiamo la bici così arriviamo prima, no torniamo a piedi, ma come a piedi, così arriviamo al ponte col tramonto, ma fa freddo, ma il tramonto!, ... , dai che poi ti porto a prendere una bella cioccolata calda.

E concedersela!, 'sta cioccolata calda, ché cedere ad un vizio ogni tanto è più una coccola che un peccato: cioccolata calda alla soia (vergognarsi quasi a chiederlo), il latte ci fa male ma anche dire "eh si, niente panna" poi non scherza.

E poi c'è sempre una prima volta: ieri mi sono portata al cinema, da sola. Ho "scoperto" un cinema in cui proiettano i film in versione originale: non c'è un posto assegnato e tutti corrono per prendere il posto per sé e per amici in arrivo, ma essendo da sola ho trovato facilmente un sedile che era rimasto vuoto, in un buon punto. E poi intendiamoci: che differenza fa andare al cinema da soli o con qualcuno? Quando si spengono le luci si è soli con la pellicola, che importa di chi ci è a fianco? Cambia solo il dopo, il rientro verso casa: ma anche camminare sola in vie poco frequentate, pensando alla calda cena che ci aspetta, ha un suo perché.

Cresciamo con l'idea che la solitudine sia una cosa negativa, ma come tutte le cose della vita, dipende dalla quantità e dalla qualità.
Ho trasformato la scorsa domenica in un appuntamento lungo un giorno, con la persona più importante: me. Note to self: farlo più spesso.
Senza dimenticare le intere domeniche passate a dormire, ché anche quelle non sono mica male.

sabato 7 gennaio 2017

Foto metafora


Questa mattina mi sono svegliata con calma, mi sono alzata con ancora più calma, mi sono lavata vestita truccata, ho provato ad uscire e ho realizzato che aveva nevicato, sono tornata indietro a cambiarmi le scarpe, sono ri-uscita, sono andata a comprare un paio di cose approfittando dei saldi, ho sbrigato delle commissioni.
Sono tornata a casa per una strada leggermente più lunga, seguendo il corso del fiume, sia perché volevo scattare una foto di uno scorcio carino con la neve, sia perché sospettavo non ci fosse stato molto passaggio, per cui la neve sarebbe stata ancora intonsa e avrebbe dato maggior sostegno al passo rispetto all'infida poltiglia ghiacciata nel resto del centro.


Ho scattato anche questa (niente di che):



L'ho scattata in un posto freddo, dove tutto era nascosto da un leggero ma evidente strato di neve: bello ma scostante, che richiede lavoro per essere tolto e arrivare davvero a toccare le cose.
L'ho scattata dove il mio incedere era insicuro e traballante.
L'ho scattata, nonostante l'insicurezza, con i piedi ben piantati per terra e la schiena dritta ("sennò si vede la panza!").
L'ho scattata non sapendo bene perché, ma guidata dallo spirito del "Perché no?".
L'ho scattata essendo completamente da sola. Ma concentrandomi avrei percepito la presenza lontana di altri.
L'ho scattata portando dei pesi, e sapendo li avrei portati ancora per un po'.
L'ho scattata volendo essere da un'altra parte, accanto a del calore, ma in fondo anche un po' contenta di essere lì.

L'ho scattata, e poi ho pensato che il dove, il come, il quando fossero una perfetta sintesi. Perché io stamattina mi sarò svegliata con calma, alzata con ancora più calma, lavata vestita truccata, sarò uscita e andata in giro come se fosse un giorno qualunque, ma oggi segna un anno.

Il primo.
Il primo di quattro.
Daje.

mercoledì 23 novembre 2016

Sinuosi parallelismi.


Scrivevo di come sia affascinante atterrare a Roma di notte, da Nord.
E poi non ho scritto più, ché già ero a Casa (e questo dovrebbe bastare come motivazione del non scrivere, essendo impegnata a godermi tutto e tutti), in più ero tornata per lavorare e quindi tempo passato a fare niente come scrivere non ce n'è stato. Ma poi sono tornata.

Tornare a Namur significa di solito atterrare all'aeroporto di Charleroi: da lì autobus e poi, stavolta, un'ora di attesa per il treno (i post sui treni arrivano, sono già mezzi scritti) che poi con i suoi buoni quaranta minuti arriva a destinazione. E su quel treno ha cominciato ad affacciarsi la sonnolenza, dovuta alle ore di sonno perse durante le due settimane (troppe persone da vedere, troppo poco tempo nonostante tutto), alla tensione da esaltazione costante dell'essere a casa che scemava, alla consapevolezza di essere alla fine di un viaggio che comincia ad essere routine: non mi sono addormentata, sono semplicemente andata un po' fuori fuoco, proprio come può succedere quando si fa un percorso a cui si è abituati e per cui ormai inseriamo il pilota automatico (anche su questi automatismi avrei un post, ma questo è solo in testa per ora). Non ero quindi attenta a dove fossimo e a quanto mancasse, avevo lo sguardo fisso fuori dal finestrino ma non guardavo davvero.



Charleroi e Namur sono collegate, oltre che da strade e dalla linea ferroviaria, anche da un fiume, la Sambre, che proprio a Namur va dolcemente a perdersi nella più grande Meuse.
La linea ferroviaria e il fiume dunque si accompagnano, allontanandosi solo per riavvicinarsi fino ad intersecarsi (per lo meno, visti dall'alto), scambiandosi i posti solo per ricominciare questa sorta di lenta danza: le acque quindi si intravedono spesso quando si è sul treno, e i tratti in cui le sponde sono illuminate sono spesso gli unici segni distinguibili nel buio della tarda sera.

Dicevamo che ero lì, fuori fuoco, persa a fissare ad occhi aperti il finestrino, alternando il percepire il paesaggio esterno (comunque buio e privo di punti di riferimento al di fuori dei centri abitati) a quello del riflesso dell'interno, senza vedere né l'uno né l'altro.
Fino a quando non mi sono ritrovata a seguire con lo sguardo il fiume, a seguire il susseguirsi di lampioni sulle rive il cui andamento... riconoscevo! Inconsciamente, devo aver registrato il percorso dell'acqua che precede l'entrare in città, e averlo riconosciuto come il preludio dell'arrivo. E infatti un minuto più tardi siamo passati vicino a quell'ansa che sì conosco bene, perché casa mia non si vede, ma è proprio lì dietro. A quel punto è comparsa la scritta sullo schermo del treno dell'imminente arrivo a Namur, ma ormai lo sapevo già.

Mi ha colpita la naturalezza con la quale prendiamo punti di riferimento senza accorgercene, mi ha colpita la delicatezza con cui il profilo del fiume è gradatamente passato dall'essere un elemento sfocato e impreciso sullo sfondo ad assumere contorni delineati e riconoscibili, che dolcemente hanno risvegliato la coscienza. Un po' come fa l'odore del caffé appena preparato amorevolmente da qualcuno mentre ancora dormiamo in una pigra domenica mattina.
E mi ha colpito il parallelismo che mi è balzato in mente tra l'Appia, che da Roma centro mi accompagnava sempre più freneticamente all'aeroporto, e la ben più placida Sambre.

Casa?

giovedì 3 novembre 2016

Le strane parole che imparo: v. 1.0.

Lo studio del francese prosegue: comprendere una conversazione non è più un'impresa dal sapore apocalittico, la comprensione scritta procede alla grande, la scrittura si è avviata. Sul parlato, siamo ancora a livello gibbone, ma è sufficiente per la sopravvivenza ed è profondamente influenzato da problemi psicologici miei che vabbé, che ve lo dico a fa'.

Al di là di quello che è il normale procedere dell'apprendimento dovuto al corso vero e proprio, lo sviluppo del vocabolario ogni tanto prende direzioni molto strane, come non manca mai di notare anche quella santa di E.A., mia compagna d'ufficio e prima maestra del francese "vero", quello che si parla al di fuori dei libri. Nel corso di questi mesi, la vita di tutti i giorni ha fatto sì che io imparassi parole strane ma utili(?) e/o interessanti(?!).
Innanzitutto, è fondamentale per ogni giovane donna essere umano che speri di diventare anche vecchio sapere cosa sono i féculents, ovvero i temutissimi carboidrati (la traduzione non è letterale, ma è il termine non troppo tecnico utilizzato di solito): le malelingue potrebbero dire che un loro eccesso è ciò che mi ha portata a richiedere che fossero sostituite le lattes du lit (doghe del letto), ma la verità è che erano già rotte quando mi sono trasferita (e per la cronaca, ancora sono rotte). Se lo sono, è perché qualcuno non sta facendo al meglio il proprio boulot: scoprire che è quasi un sinonimo di travail (lavoro) mi ha sorpresa molto, e se vi fosse stato anche un pizzico di ammirazione avrei potuto esclamare "la vache!" (si, è esattamente la mucca. Ma in fondo noi in situazioni simili non solo la tiriamo in ballo ma la insultiamo pure. Persino Spock, in Rotta verso la Terra, si lascia andare ad un umanissimo "Porca vacca!").

Sorprendente è stato inoltre scoprire tutto il cerimoniale di iniziazione dei bleus (le matricole)*: messa a parte di alcuni dei canti tipici associati all'occasione, ho imparato anche cos'è la guele (bocca, ma intesa di animale, e quindi un po' dispregiativa in caso sia utilizzata riferendosi a uomini), visto che 'sti poracci vanno in giro per le strade in posizioni strane a cantare
Bleu, bleu
Je suis bleu,
Je ferme ma guele
et ca ira mieux.
 (Matricola, matricola, sono una matricola, chiudo la boccaccia "che è meglio")
Di folklore si è parlato anche in occasione di Riri, Fifi, Loulou (leggi "Lulù"), che poi si sono scoperti essere i nostri Qui, Quo e Qua: lasciando perdere nazionalismi inutili, ma quanto è più simpatico dire "Qui, Quo e Qua"?

Parlavamo di cibo (succede spesso in questo ufficio) ed è saltato fuori che potrei sentir dire "J'ai des biscottos" (o biscoto, biscoteaux, biscotos, biscotteau, biscotteaux, sono ancora un po' confusi a riguardo) da qualche palestrato che si stia vantando dei suoi bicipiti.
Biscotto. Bicipiti.
Non me ne capacito (e non siamo riuscite a trovare un'etimologia certa).

Per finire, la più recente. Il processo maieutico è stato decisamente tortuoso (e forse è anche più interessante della parola in sé): rivendicazione del diritto a cominciare ad ascoltare carole di Natale --> addobbi natalizi in ufficio --> addobbi a casa --> otto dicembre --> Immacolata Concezione --> al poro Giuseppe non l'hanno raccontata giusta. E niente, alla fine ho scoperto che stérilet è la spirale (il dispositivo anticoncezionale). Non so bene cosa farci con quest'informazione al momento, ma il commento è stato "mi raccomando attenzione, o rischi di dare a qualcuno della spirale (stérilet) invece dello sterile (stérile)".
Al che sorge spontanea una domanda: sembro forse una dispensatrice di offese a tema riproduttivo?





* Sono mesi che mi dico che devo cominciare a scrivere i post relativi alle differenze tra i sistemi scolastici e universitari. Prima o poi lo farò, e la storia dei bleus ne merita uno a sé. Perché questi davvero non stanno proprio benissimo...

lunedì 17 ottobre 2016

La temperatura sperata, questo gran mistero.

I Belgi sono persone strane: sono sicura che chiedendoglielo, direbbero esattamente la stessa cosa di noi Italiani, e forse questo vale un po' per tutti. Ma i Belgi sono davvero strani.
Una cosa che salta immediatamente all'occhio, soprattutto durante i cambi di temperatura (perché “stagione” mi sembra un concetto piuttosto astratto da queste parti), è che i Belgi si vestono con un apparente, relativo, unico criterio: la temperatura sperata. Il concetto di temperatura sperata, a seconda dei casi, si sovrappone ad altre temperature: ci sono delle volte in cui quella sperata è quella che dovrebbe essere normale guardando il calendario (cioè quella prevista), altre volte è quella che ci si illude dovrebbe esserci, magari subito dopo un'anormale ondata di caldo in autunno (quella anormale ma buona).
Non sono mai stata una persona freddolosa, e ho anzi passato buona parte dei miei anni finora a rispondere a “ma non hai freddo?” provenienti dalle fonti più disparate. Però non è che per questo voglio morire ibernata, quindi quando le condizioni climatiche lo richiedono mi vesto di conseguenza (mediamente, ecco, ricordiamoci sempre che non sono evidentemente capace di azzeccare la temperatura giornaliera).
Loro no. Ora (beh, ormai da un paio di settimane) che è arrivato l'autunno, mi sono arresa al cappotto. Con tanto di strati intermedi e di sciarpa, a volte. E invece no, loro* belli e paciosi ancora vanno in giro con la maglietta a mezze maniche e spesso con i pantaloncini corti. Questo perché settembre è stato particolarmente caldo per gli standard nazionali, ed evidentemente non sembrandogli vero hanno deciso di aggrapparsi a questa inaspettata ventata di buon tempo con i denti e con le unghie. Anche dei piedi, a giudicare dal fatto che alcuni portano ancora i sandali.
Per dire, qualche giorno fa mi sono sentita dire: "Oggi sarebbe stato il caso di mettere gli stivali, ma sai, una volta che cominci con gli stivali non te li togli più perché sono belli caldi, e allora voglio aspettare ancora un po'". Come, scusa?

L'esempio più clamoroso però risale a qualche mese fa.
Non me lo scorderò mai: io e A., che vive a Lussemburgo, decidiamo di incontrarci ad una confortevole metà strada, il che vuol dire nei dintorni di Bastogne, che nella mia ignoranza non avevo collegato alla battaglia delle Ardenne. Ha nevicato tutto il giorno, ma seriamente. A metà pomeriggio siamo state sorprese da una bufera di neve talmente forte da riuscire a camminare a stento, con tanto di ombrello per ripararci.
Era il 24 aprile.**
Di ritorno verso casa, aspetto in stazione il mio treno (che, indovinate un po'? Era in ritardo di mezzora... prima o poi ve lo scrivo un post dedicato solo ai treni di questo Paese) addobbata con piumino, sciarpa, berretto, guanti, e stando ben attenta a non disperdere calore. Sono circondata da studenti che tornano a Namur per la settimana (è domenica sera), e molte delle ragazze sono spavaldamente vestite con giacchettina e ballerine...

...

BALLERINE?! In mezzo alla neve, solo se hai una pinna caudale al posto dei piedi. E comunque no, che ti si sciolgono. Ma immagino che il fatto che il calendario segnasse il 24 aprile fosse ragione sufficiente per ignorare i gradi celsius negativi che il simpatico tempo belga aveva deciso di proporci.

Non è la prima volta che guardandomi intorno non solo quella vestita più leggermente: succedeva di continuo al centro, a Londra. Ma lì era principalmente per una questione di ...stile?…, per cui le ragazze col vestitino e i sandali tremavano dal freddo ma non avrebbero mai rinunciato a mostrare quei centimetri di pelle in più. Era una scelta ben precisa, e assolutamente consapevole di essere fuori da qualunque schema climatico.
Invece ora, guardandomi in giro, mi viene in mente solo una cosa… Ma non hanno freddo?



* La maggior parte di loro, c'è anche gente normale...

** Tra l'altro, era il weekend della Liegi-Bastogne-Liegi. Poracci.

giovedì 6 ottobre 2016

Brussels at war.

Ieri ero impegnata nelle mie letture quando ad un tratto mi sono scorse sotto agli occhi queste parole:

"However after he had walked about for an hour or two he came to the conclusion that the fault was not in him, but in Brussels itself. He knew what a city at war looked like, and this was not it. There ought to have been companies of soldiers passing up and down, carts with supplies, anxious-looking faces. Instead he saw fashionable-looking shops and ladies lounging in smart carriages. True, there were groups of officers everywhere, but none of them appeared to have any idea of pursuing military business [...]. There was a great deal more laughter and gaiety than seemed quite consistent with an imminent invasion by Napoleon Buonaparte."
"Jonathan Strange & Mr Norrell", Susanna Clarke

Da quando sono in Belgio mi sento chiedere spesso com'è la situazione, a causa dell'allerta generale terrorismo e degli attacchi, paventati o purtroppo davvero accaduti che siano. Io non sono mai stata a Bruxelles durante uno dei momenti critici, per fortuna, quindi non posso dire come reagisce la città nell'immediato. Ma ci passo relativamente spesso, quasi sempre in punti nevralgici, e questa descrizione centra in pieno il punto di una giornata qualunque.

Vorrei davvero sentire l'odore del nervosismo da guerra? Ovviamente no.
La sua assenza però è quasi surreale.

mercoledì 21 settembre 2016

Prendi un incontro in treno...

Domenica notte, interno treno.
È la penultima corsa per Namur del giorno, presa al volo causa ritardo dell'Eurostar: mi siedo, compilo il biglietto, mi sistemo il più comodamente possibile. Più per combattere la stanchezza e mantenere il cervello vagamente impegnato che per reale interesse, comincio a saltare da un sito all'altro con lo smartphone, fino a fermarmi su un blog di una tizia che parla di cura e acconciature di capelli ricci (alto tasso di cultura, mi rendo conto). Distrattamente scorro la pagina, e si susseguono una serie di immagini di trecce, colori, tagl"AENGMGPHAGNAFLPEPAVPOMAV W2QYTEICVNSMCLSOVFN!"

Giuro, è quello che il mio cervello ha recepito. Risvegliata da una sorta di assopita trance, metto a fuoco il mondo intorno a me e capisco che chi mi sta parlando è il tizio seduto ai posti accanto ai miei dall'altra parte del corridoio. L'apparente Klingon è dato dal fatto che ancora non destreggio l'ascolto periferico del francese, intendendo che capisco molto di quello che viene detto ma solo se mi concentro su chi sta parlando, mentre conversazioni captate per caso e di sfuggita sono ancora difficili da decifrare passivamente.
Una volta capito che la situazione richiede la mia attenzione, diventa tutto più... comprensibile.

"Scusa, mi dispiace ma stavo sbirciando sul tuo cellulare. Non tagliarti i capelli, che sono bellissimi così!"
"... mmm no, non li voglio tagliare."
"Ah, bene, bene. Perché davvero, tienili così. Al massimo puoi fare qualcosa al colore, ma tienili così!"
"... ok..."
"Bene, mi raccomando eh!"

Mentre cerco di capire se dovrei sentirmi imbarazzata, lusingata o preoccupata, comincio a pensare che magari fa il parrucchiere e si è sentito chiamato in causa. Un po' come quando sento gente dire cose fuori dal mondo riguardo alla matematica e mi devo mordere la lingua per non intervenire beceramente.*

Poi il tizio ha iniz ricominciato a bere, e tutto è tornato ad essere normale. Più o meno.




* Una volta, mentre studiavo in un'aula dell'università, un gruppo di tre studenti di biologia (almeno mi auguro del primo anno) intento a risolvere un esercizio, imputò il diverso risultato ottenuto al fatto che avessero invertito l'ordine dei fattori in una moltiplicazione: "Mica è uguale!".
Il mio autocontrollo per non saltare sul banco e urlare alla blasfemia fu messo ulteriormente a dura prova quando aggiunsero che "Dobbiamo aver fatto un errore, perché 0.4^6 diventa sicuramente grandissimo!".