Chi?

La mia foto
Namur, Belgium
Gattofila, razionalmente disordinata, ossessivo-compulsiva part-time.

lunedì 18 luglio 2016

Tutta colpa delle birre

Lo scorso weekend sono venuti a trovarmi sia G. che L., un po' per conoscere Namur (in particolare L., che G. ormai la sa a memoria) ma soprattutto per passare del tempo insieme, ché il vivere in tre Paesi diversi e l'avere tempi di ritorno in Italia non sincronizzati non aiutano molto a vedersi.
Non è che Namur sia esattamente una metropoli nugolo di attrazioni, anche se qualche bella passeggiata non manca e osservando la città dall'alto della Cittadella abbiamo scoperto che alla fiera ci sono le giostre (le giostre! La me bambina saltella ancora adesso sul posto!). Però ecco, insomma, se si è appiedati e al centro non è che proprio ci siano giornate intere da riempire con cose da fare.

Fortunatamente il Belgio offre una serie di intrattenimenti che ci gustano parecchio: birre, decine di birre buone. Ma quali pinte calde e annacquate inglesi, dimenticate le bionde scialbe francesi: un qualunque pub di media qualità vi proporrà una selezione che soddisfa tutti i gusti, dalle blanches (... de gustibus...) alle corpose brune, esplorando con gioia e tripudio tutto ciò che c'è nel mezzo.
E io che comincio a darlo per scontato!
Complice un weekend particolarmente caldo e asciutto, abbiamo goduto di quella che finora è stata una fantomatica leggenda: l'aperto. Dall'aperitivo alla tarda serata passando per la cena, placidi e soddisfatti abbiamo sorseggiato le nostre birre seduti all'aria "fresca", così come siamo stati abituati da anni di Roma. E così, tra un cubetto di formaggio e uno scambio di opinioni, il tempo è trascorso senza che ci servisse altro, rilassatamente seduti alla luce del tramonto o sotto il cielo stellato.

"Ma perché ci racconti tutto questo?"
Perché ho assaporato cosa vorrebbe (vorrà?) dire vivere questa realtà al suo meglio e con le Persone giuste, con quelle con cui c'è davvero una profonda sintonia. Ed è stato allo stesso tempo rilassante e malinconico.
"E dovevi aspettare 'sti due? Non hai ancora trovato qualcuno lì?"
Chissà. Aldilà dell'amore per la bevanda luppolata (che è meno diffuso di quanto pensassi, evidentemente), non mi è ancora molto chiaro se il periodo di studio e approvazione reciproco è normale sia così più lungo rispetto a quanto sia abituata o se apparteniamo a due piani diversi (per cultura, tradizione e usanze) che si intersecano piacevolmente ma non si sovrapporranno in ogni caso.
"Sei triste?"
Non proprio. Ho imparato a convivere con una delicata ma costante nostalgia da anni ormai, anche se l'oggetto di tale sensazione è mutato nel tempo (n.d.a., si è moltiplicato). È strano però provare nostalgia per qualcosa che ancora non è esistito, per qualcosa di cui si è conosciuta solo una breve proiezione, magari nemmeno realistica. Forse sarebbe semplicemente più corretto definirla mancanza. Certo è che ancora una volta ho capito che un Luogo non è composto solo dal Dove ma anche dal Chi: e forse quello che è successo (e che succede ogni volta che qualcuno viene a trovarmi) è che mi è stato mostrato un altro Luogo, bello e accogliente, ma diverso dal Luogo reale del quotidiano.

O forse fremo solo all'idea che tra poco torno a Casa, anche solo per le vacanze.

giovedì 7 luglio 2016

Parlare con le persone.

Una decina di giorni fa ho preso armi e bagagli e sono partita alla volta di Bad Honnef, ridente paesino tedesco nei pressi di Colonia. Obiettivo della spedizione? Partecipare ad una scuola* sulla formazione degli exoplanets (che poi in italiano sarebbe "esopianeti", ma è sempre strano utilizzare la propria lingua per qualcosa di cui leggi, parli e ascolti sempre e solo in inglese).
Dopo tre treni, qualche corsa e una collega recuperata per strada, ci siamo ritrovati davanti al Centro che avrebbe ospitato la scuola: in pratica, il castello del Professor X degli X-Men.


[Ammetto che la mia impressione potrebbe essere stata esagerata dalla sorpresa e dalla fame, ma diciamo che l'atmosfera era la stessa.]

In quel posto avremmo dormito, seguito le "lezioni", mangiato (tanto!, spesso!, bene!) e bevuto.
(A tal proposito mi sento di aprire una lunga parentesi: quando ci hanno spiegato come funzionavano le cose, ci hanno parlato anche delle liste su cui avremmo dovuto annotare le bibite consumate durante i giorni, da pagare alla fine della permanenza. Ad esclusione dell'acqua e della birra alla spina, che erano gratis. Pensavamo scherzassero. E invece...)
Tutta questa lunga introduzione per dire che i 60 partecipanti (provenienti da tutto il mondo) avrebbero trascorso cinque interi giorni letteralmente insieme.

Parlando inglese.
Oh, gioia e tripudio! Comunicare! Esprimersi! Tutti nella stessa lingua!
Guidata da questa prospettiva così diversa dal mio quotidiano, a differenza del solito sono stata la persona più comunicativa e più socievole del mondo: addio problemi nel parlare con sconosciuti, benvenute conversazioni da ascensore per attaccare bottone!
Ho trascorso ore a parlare con tantissima gente diversa, tra l'altro incontrando, in un'incredibile serie di circostanze, una persona con cui ho "di seconda mano" ma stretti legami scientifici.

E però.

Tutto bellissimo, tutto fantastico, ma mi sono ritrovata a chiedermi cosa voglia dire davvero parlare con qualcuno. In situazioni di questo tipo capita spesso di essere interrotti, di vedersi accavallare argomenti, di deviare per un attimo la conversazione: il 90% delle volte, il mio interlocutore non ha ripreso il filo del discorso.
In principio, l'ho notato soprattutto quando il discorso interrotto era il mio: avevo premuto il tasto "pause" e adeguatamente riservato uno spazio nel mio cervello per ricordarmi cosa stavo dicendo, perché lo stavo dicendo e come avrei continuato; mi lasciavo guidare da quella sorta di aspettativa che mi generano sempre le cose lasciate in sospeso per essere riprese; aspettavo il momento in cui l'altro (o l'altra) avrebbe voluto sentire la fine della storia.
E invece nulla.
Ora, non è che io pretenda di dire sempre cose interessanti o divertenti, anzi: però per me è inconcepibile. Fa parte del mio schema mentale da sempre. E lo so perché Madre ha spesso la brutta (nella mia scala valutativa, ovviamente) abitudine, quando siamo a tavola, di iniziare un concetto o una frase e poi prendere una bella forchettata dal piatto. Prima di aver finito di dire quello che stava dicendo. E come la buona educazione insegna, non si parla con la bocca piena. Quindi ben conosco la sensazione di suspence del dover aspettare per sapere la fine, la straziante attesa di quel qualcosa che completi il puzzle e faccia rilasciare al mio cervello il meraviglioso segnale di "ok, anche questa volta ce l'abbiamo fatta, nessuna cosa in sospeso!". E questo indipendentemente dall'argomento: può anche non interessarmi, ma io devo sapere come va a finire.
Per me è dunque assolutamente naturale e fondamentale chiedere, in caso il mio interlocutore sia stato interrotto: "dunque, stavi dicendo?". E il fatto che per gli altri non sia lo stesso, mi lascia sempre un po' sconcertata.
C'è sempre l'opzione di riprendere il discorso da sé, che è ciò che di solito faccio quando ritengo che quello che sto dicendo valga davvero la pena, in termini di interesse o divertimento. Succede spesso, ma che ci posso fare se ho tantissime valide cose da dire? [IRONIA]
Siccome cominciavo a notare spesso questa tendenza, ho intrapreso un piccolo esperimento: quando il discorso lasciato a metà non era il mio, la maggior parte delle volte ho evitato di riprenderlo per vedere cosa sarebbe successo. Potete immaginare che dolore mentale per me non completare qualcosa pur avendone la possibilità, ma cosa non si fa per la scienza?!
Ebbene, spesso il discorso non è stato ripreso. La persona che avevo di fronte non ha continuato. Cominciava quindi a non essere più un problema di "magari non capisce il valore del mio brillante discorseggiare", ma di quale fosse il valore attribuito alla conversazione. Se non ti interessa quello che sto dicendo ma non ti interessa nemmeno finire quello che tu stai dicendo, allora non stiamo comunicando, non stai cercando di trasmettermi un messaggio: stiamo riempiendo il silenzio, stiamo facendo scorrere il tempo, stiamo togliendo la ruggine al nostro inglese. Per carità, potrebbe andare pure bene, ma siamo su due canali completamente differenti.

Non è successo con tutti, ovviamente. Ci sono state molte persone con cui ho connesso subito, con cui ho parlato moltissimo e riso tantissimo. Ho conosciuto tanti che spero di incontrare di nuovo, in situazioni simili. Ho portato a casa tutto questo.
Ma ho anche portato a casa la consapevolezza che il mondo è pieno di effimere conversazioni e di parole dette tanto per riempirsi la bocca, il che è addirittura oltre l'essere interessato solo a quello che riguarda il sé. È il segreto di Pulcinella? Magari si, magari ho scoperto l'acqua calda perché non mi capita così spesso di avere a che fare in modo intensivo con decine di persone sconosciute. Di sicuro, ho scoperto un'altra cosa che mi lascia un po' di tristezza addosso.



* piccolo appunto linguistico. Nel mondo scientifico italiano, io ho sempre sentito utilizzare il termine "scuola", inteso come un insieme di workshop e lezioni riguardanti uno stesso argomento, con una costruzione equivalente a quella del termine "corso". Da cui la frase "partecipare ad una scuola". L'appunto deriva dalle critiche ricevute in famiglia non appena ho utilizzato questa espressione, cosa che mi ha colpito perché per me (e per migliaia di altre persone) è naturale.
È anche corretto? Non so, ma entrando in una comunità ci si deve adeguare al suo linguaggio.