Chi?

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Namur, Belgium
Gattofila, razionalmente disordinata, ossessivo-compulsiva part-time.

lunedì 22 febbraio 2016

Mi sono trasferita.

Ho realizzato pochi giorni fa che io, qui, a Namur, mi ci sono trasferita.
Non per un weekend, non per un mese, e nemmeno per un anno. Ma per davvero.
Il trigger istantaneo è stata la pianificazione dell'iscrizione al centro sportivo universitario, che io ho scoperto tipo una settimana fa... un applauso per la sottoscritta? E che tra l'altro è a cinque minuti da casa, ça va sans dire.
Il vero fattore che ha costruito le fondamenta di questa improvvisa illuminazione, però, è stato un altro.
Io sono qui, a #namurdecittà, G. è nell'Oxfordshire (comunicazione semplice, diretta, senza troppe spiegazioni né contestualizzazioni. Ce la siamo cavata abbastanza bene, dai); questo prevede, come si può ben immaginare, una certa quantità di viaggi tra il Belgio e l'Inghilterra: il mio saldo punti (acquistati, non ancora utilizzabili) del programma fedeltà dell'Eurostar è già imbarazzante, per dire.

Lo scorso weekend è stato il primo in cui, tra i piccioncini, quello viaggiatore aveva bandiera belga, che poi è un modo complicato e forse mal riuscito per dire che è stato il mio turno di muovere il cu spostarsi. Ciò richiede, in una certa misura, una trasformazione.
Cambia il documento. Carta d'identità ---> passaporto: l'ultima volta che ho provato ad entrare negli UK con la carta d'identità hanno pensato fossi dell'Europa dell'Est e che il mio documento fosse falso. Scene esilaranti, per cui al controllo passaporti non erano convinti che il colore degli occhi fosse davvero blu e che parlassi italiano: "Do you speak Italian?" "Yes!". Dopo una decina di secondi di silenzio attonito e di sopracciglia alzate, ho capito (suvvia, erano pur sempre le 3 di notte!) che volevano lo dimostrassi. Spoiler: nun m'ha aretto di insultarli in romanaccio.
Cambiano i mezzi di trasporto: Oxford Key Pass e Oyster Card in tasca, ché mica poi a Londra si ha tempo da perdere!
Cambia la valuta. No, non è vero, tanto pago sempre con la carta. Ma fa figo scriverlo (?).
Cambia la lingua. Perché è vero che il mio francese ancora zoppica (... come? Dite che è più corretto "latita"?...), ma mi hanno insegnato che l'educazione è importante e salutare quando si entra da qualche parte è buona creanza: esordire con "Bonjour!" in Inghilterra potrebbe sembrare inutilmente eccentrico e innescare strane e imbarazzanti conversazioni con eventuali francofoni presenti.
Cambia l'atmosfera in generale. E io mi sento un po' come il Sindaco di Halloweentown.

Magari con entrambe le facce più carine...
Il cambio è quasi altrettanto repentino, ma immagino che con il passare del tempo diventerà più fluido ed armonioso: perché il punto è proprio questo, che le due realtà, d'ora in poi, dovranno convivere.
Non si tratta di una tantum, non è un "questa volta così, poi la prossima chissà", com'è stato finora: è una nuova routine che si instaura, e questo perché i due capolinea, partenza e arrivo, saranno, per qualche anno, sempre gli stessi.

E questo perché, signore mie, ci siamo trasferite.

lunedì 15 febbraio 2016

I do not speak French


Ve l'avevo promesso, ed eccola qui: casistica dei belgi che incontrano una non-francofona.
Lasciatemi per un attimo divagare, ma sento il bisogno (morale e narrativo) di sfatare un mito: la conoscenza dell'inglese non è proporzionale ai gradi di latitudine.
Non so voi, oh miei italici lettori, ma io e i miei amici eravamo abbastanza sicuri che l'inglese sarebbe stata un'ottima ancora di salvezza nel primo periodo di non-francese. "Te pare? Ma poi in Belgio c'è il parlamento europeo! Bruxelles! Da paura!"
Ecco, no.

Onestamente dirò che il mio inconscio evidentemente ha ritenuto saggio non farmi cogliere degli indizi che si erano già manifestati quando, ad ottobre, ero stata qui qualche giorno per prepararmi al colloquio per la borsa di studio: receptionist dell'albergo a parte, nessuno al di fuori dell'università aveva mai dato alcun segno di parlare inglese, ma non essendo il numero delle interazioni tale da costituire un bacino statistico, avevo lasciato perdere, mantenendo un vago, orribile sospetto in un angolino della testa all'altezza della nuca.
Sospetto che poi come un Alien mi è uscito dal collo, si è cibato della mia sorpresa/delusione ed è diventato il mio miglior amico immaginario.

Se parliamo della mera sopravvivenza, in realtà, parlare la lingua locale non è strettamente necessario: una volta che si ha pieno possesso di alcune parole chiave (grazie buongiorno buonasera), indispensabili per non sembrare una sociopatica squilibrata e non farsi rinchiudere in qualche istituto, si sopravvive.
Riempi il carrello o il cestino delle cose che ti servono, porti alla cassa, parola chiave + sorriso ebete, paghi (importantissimo pagare, ché dare spiegazioni non lo sappiamo ancora fare!) e via.

Ma! Ma...
Ma la vita non è solo mera sopravvivenza, alle volte per soddisfare dei bisogni non primari ma necessari è indispensabile relazionarsi col prossimo utilizzando costruzioni linguistiche degne almeno dell'Homo Sapiens. O possono avvenire degli imprevisti, che in qualche modo si dovranno pure affrontare. E qua casca l'asino.
Ih-oh.

Ingenuamente, forte della mia buona conoscenza d'oltremanica, di solito esclamo:

"I don't speak French!"


...

Pupille dilatate, bocca semi-aperta, irrigidimento muscolare: queste le involontarie e imprescindibili reazioni di chiunque. Dopo il primo attimo di panico, gli astanti si ripartiscono in tre categorie.

Misericordiosi: "Non so l'inglese, ma stai messa peggio tu"
Qualche raro esempio di pietà: cogliendo la situazione, con un enorme sforzo di memoria i misericordiosi ricordano le traduzioni in inglese di quelle due o tre parole base necessarie a ricostruire il concetto che vogliono esprimere. Le dicono lentamente, senza verbi, congiunzioni o soggetti, ma chi sono io per giudicare? Quasi coi lacrimoni di commozione, resisto all'urgenza di abbracciarli sentitamente, rispondo qualcosa di adeguato e via, anche stavolta è andata.


Professionali: "E' 'n' po' 'n problema tuo, ma io c'ho comunque la pagnotta da guadagnà"

Compresa la situazione che ha davanti, il professionale decide che la barriera linguistica non lo/la fermerà dal guadagnarsi lo stipendio: così la ignora, e continua tranquillamente a parlare in francese.
Alla stessa velocità.
E non gesticola.
A questo punto una si trova costretta a sguinzagliare tutte le proprie abilità: l'udito per percepire qualche mezza parola nota; la vista per individuare se l'interlocutore, in un momento di poco controllo, magari volta lo sguardo verso un punto che potrebbe essere d'interesse per la questione in gioco; il controllo muscolare per tenere la bocca fissa in un sorriso ebete e non farla dirottare drasticamente in un'espressione sarcastica
"Seriously?"
(Impariamo così che Kristen Stewart ha almeno due espressioni in repertorio.)
WTF: "Se non parlo non mi ved... parl... Vabbè, non mi."
La mia categoria preferita (colta l'ironia?): non appena percepiscono il problema linguistico, i WTF si ammutoliscono. Restano al loro posto perché di solito stanno lavorando e non posso semplicemente andarsene, ma fossero liberi da qualunque obbligo scapperebbero alla Bolt senza mai guardarsi indietro. Non potendolo fare, distruggono qualsiasi contatto visivo, sveltiscono i movimenti per accorciare il più possibile quell'agonia e si ammutoliscono: non proferiscono neanche una parola. Neanche in francese.
A quel punto ogni interazione cessa di esistere, manco fossi un abominevole uomo delle nevi.
Non sono matta, G. ha assistito ad un episodio simile: addirittura in quel caso, rea di aver chiesto "two espressos, please", sono stata guardata in cagnesco e i miei soldi sono stati accolti come se fossero stati avvolti da pestilenza pura. I WTF non sono così diffusi, ma colpiscono per la loro assolutezza e l'imprevedibilità. Sono i T-Rex del confronto linguistico, praticamente.


Potrei concludere qui, "ah ah ah, ma che divertimento", "oh oh oh, poraccia"; invece, per dovere di cronaca, sento di dover aggiungere una nota: i Belgi sono cordiali e sempre molto disponibili. Superato lo scontro iniziale, studiando le reazioni (e, devo ammettere, all'aumentare degli avvistamenti dei misericordiosi), mi sono convinta del fatto che non è cattiveria: si sentono in difetto. I Valloni (belgi francesi) sono assolutamente consci di non sapere l'inglese, e non lo dicono scherzandoci su: iniziando una conversazione in inglese si sottolinea, più che la propria, la loro mancanza, e questo, varrebbe per tutti, crea del disagio.
Una volta capito questo punto, ho preso l'abitudine di cominciare con una semplice frase in francese, del tipo "Je suis desolée, mon francais est terrible", o cose del genere: l'intenzione è "sto per metterti in difficoltà, mi dispiace, ma guarda che anche io non è che stia messa molto meglio".
E vi dirò, nella maggior parte dei casi fa la differenza.
Forse alcune cose si capiscono anche parlando due lingue diverse.


Ps: Invece quella dei caffè era proprio str****.

lunedì 8 febbraio 2016

Accadono cose a Namur #3 : l'innocente conversazione

La settimana scorsa si è svolto il test di inserimento per il corso di francese organizzato dall'università: ai presenti è stato chiesto di svolgere degli esercizi di ascolto, di scrittura e di grammatica per valutare il livello degli interessati e poterli piazzare nel corso ad hoc.
Giusto per darvi un po' di contesto (ah!, nessuna sorpresa, sono nell'élémentaire, com'è giusto che sia).

Mi presento davanti all'aula in cui si svolgerà il test con un certo anticipo, ché vabbè che alle distanze irrisorie ci si abitua presto, ma ho comunque 25 anni di vita da resettare e previsioni di ritardo da dimenticare.
Ad un certo punto si avvicina una ragazza, chiaramente lì per il mio stesso motivo: sei qui per il test/si anche tu/siamo in anticipo tocca aspettare un po'.
Dopo un minuto di silenzio mi chiede perché sono a Namur, cosa faccio, da dove vengo: "ah ma che bella Roma prima o poi vorrei andarci".

Ora. Io non sono mai stata un asso nelle conversazioni con sconosciuti o con persone appena conosciute; quella misteriosa capacità di tirar fuori argomenti leggeri ed esplorativi non mi appartiene in modo assoluto, ma dipende al 99% dalla persona che ho davanti: questo solitamente genera nelle persone che ho di fronte la convinzione che io sia una stronz persona introversa (spoiler: la maggior parte delle volte l'idea di stronzagg introversione non solo resta immutata con la maggior conoscenza ma si radica nel profondo. Ma quella è un'altra storia). Parlavo però qualche tempo fa con una persona che a quanto pare è più scarsa di me: suggerivo quindi che un inizio può essere chiedere alla persona che hai di fronte le stesse domande generiche che ti sono state appena poste.
Consiglio elargito con la stessa superiorità con cui una testuggine parlerebbe ad una lumaca del tema "velocità".
(A tal proposito, questo video ha chiaramente contribuito alla mia formazione personale, anni fa:


"Si vede", potrebbe rispondere qualcuno.)

Decido quindi di applicare il mio strategicissimo consiglio, con un twist. L'avevo sentita rispondere al telefono e parlare in francese, un francese che sicuramente ancora non mi appartiene in quanto a fluidità e vocabolario (sulla comprensione sto facendo passi da gigante, ma sul resto...). La domanda che quindi mi è venuta in mente è stata "ma tu parli già francese, come mai sei qui per il corso?"
"Si, lo parlo abbastanza, ma voglio migliorare. Poi, sai, sto tutto il giorno a casa senza fare nulla, purtroppo, almeno impegno il mio tempo."
Sottolineato, trovate il primo indizio che mi è sfuggito. Sempre più cose mi suggeriscono che potrei avere una personalità multipla: a volte ho uno spirito d'osservazione alla Sherlock Holmes, altre potrei ricevere una proboscidata da un enorme elefante blu a tre teste e non accorgermene.
Non contenta, le chiedo da dove viene. "Dalla Siria".
Anche solo per questo mi sarebbero dovuti scattare decine di campanelli d'allarme in testa. Ma che dico decine, centinaia! L'informazione sul fatto che chiaramente non era soddisfatta del suo essere qui mi avrebbe dovuto far fare due più due in un istante.
E invece la mia domanda successiva è stata: "Ah, e cosa ci fai qui?"

"Beh, sai, c'è la guerra."

BEH.
SAI.
C'È LA GUERRA.

Sarei voluta diventare parte del pavimento.
La prima cosa a cui ho pensato è stata la fuga fisica. Siamo alla fine di un corridoio, sono appoggiata ad una finestra, al secondo piano: troppo basso per essere sicura che la caduta mi tramortisca e mi tiri fuori dalla situazione, troppo alto per essere sicura di non rimanere a terra dolorante e impossibilitata alla fuga.
Ho poi pensato alla fuga figurata. Mi guardo intorno e nel corridoio non c'è anima viva: se qualcuno c'era, probabilmente si è chiuso nella prima stanza libera che ha trovato per l'imbarazzo della situazione.
Ok, non posso uscirne. Nel tono meno imbarazzato possibile sussurro un "mi dispiace se la domanda non è stata delicata", la ringrazio mentalmente per il suo "non c'è problema, figurati" e mi ammutolisco.

Ho scoperto oggi che lei è nel corso avancé: possibilità di rivedere lei e con lei tutto questo episodio, non pervenuta.

Postilla
Il post conteneva, nella sua prima bozza, alcune righe di riflessioni filosofiche sulle difficoltà della vita. Ve e me le risparmio, più che altro perché non dicevano niente di particolarmente originale.
Il succo della questione era: il benaltrismo spesso è fine a se stesso, ma a volte aiuta a ridimensionare i proprio piccoli ostacoli.

venerdì 5 febbraio 2016

Venerdì

Molti degli studenti non sono originari di Namur, durante il weekend la maggior parte torna a casa: la città chiacchera grazie ai rumori delle valigie trascinate sulle pavimentazioni dei marciapiedi.
Queste voci si rincorrono e si intrecciano, spariscono dietro ad angoli o compaiono lungo la via, in un continuo susseguirsi di suoni diversi, di parole.

A seconda dell'occasione mi raccontano qualcosa di diverso: certe volte preannunciano la gioia dell'incontro, se qualcuno arriverà o qualcun altro partirà; altre volte, sussurrando mi ricordano la calma e la malinconia del fine settimana a venire, in un posto che ancora non ho imparato a chiamare casa.
Come oggi.

mercoledì 3 febbraio 2016

Cose a cui mi sto abituando

Lentamente ma inesorabilmente, il conto dei giorni trascorsi da quando mi sono trasferita aumenta sempre più; con esso, aumentano anche le situazioni e le abitudini locali che hanno perso la connotazione di "novità" e diventano normalità.
Perché di normalità non ne esiste una sola, ed è la nostra percezione a decretare quale normalità si adatta al momento e alla situazione attuali.

L'inverno, ovvero la non-luce
Data la maggior latitudine (la sappiamo tutti la storia, no?), rispetto all'Italia in inverno ci sono meno ore di luce al giorno. Vabbè, fatto ovvio, non è che si dovesse venir qui di persona per saperlo.
Ma saperlo e viverlo sono due cose diverse (anche qui, banalità a palate!).
Se avere il buio presto nel pomeriggio non è poi un così grave fattore (anche perché in ogni caso si è in ufficio, non è che cambi granché), non avere luce la mattina appena svegli può comportare delle conseguenze. In particolare, il (mio) corpo si rifiuta di mettersi in moto: "cosa? Le sette e mezza? Guarda che fuori è ancora buio vero, te stai a sbaglià! Mi disattivo tra tre... due.... unzzzzzz".
Per me che soffro di risvegli impossibili, poi, i primi giorni sono stati una tragedia.
Ora non ci faccio più caso: non sento la mancanza dei raggi di sole che penetrano sotto l'oscurante, non ho bisogno della luce per convincermi che è davvero l'ora di alzarsi.





I miei risvegli tuttavia sono sempre traumatici, ma ci stiamo lavorando (da ventisei anni, probabilmente, ma ci stiamo lavorando!).

Il tempo (atmosferico) belga
Cosa dire... In uno stesso giorno può piovere, splendere il sole, nevicare. Una volta capito che l'ombrello lo devi avere sempre con te, indipendentemente da tutto, alla fine ti ci abitui.
Due le conseguenze notabili: innanzitutto, non ci si può permettere la meteoropatia, pena il rischio di sembrare psicotici dalle multiple personalità; in secondo luogo, la cara vecchia banale conversazione sul tempo si può riciclare più volte al giorno, anche con la stessa persona. Dico, vòi mette?

Nonostante le variazioni, non ci si illuda che la media non sia un triste grigino nuvoloso: oggi mi sono ritrovata nella sala caffè davanti alla finestra con gli occhi chiusi e un sorriso ebete, a godere del raro sole come farebbe una pianta. Una pianta grassa, magari.
Questo grigino nuvoloso è solitamente accompagnato da una pioggerellina stupida: talmente leggera da far sembrare che le gocce ondeggino nell'aria, non giustifica l'apertura dell'ombrello ma è sufficiente per distruggere qualunque definizione dei ricci e farmi assomigliare ad una pecora infeltrita (mi rendo conto che forse non sono questi i problemi del mondo, però...).
Indispettimento garantito.

Solo a me sembra satanica?!



Distanze
Nel centro di Namur, dove ho la fortuna di vivere e lavorare, c'è praticamente tutto ciò di cui si ha bisogno. E il centro di Namur non si estende esattamente per centinai di chilometri quadrati.
Questo implica la possibilità di raggiungere qualunque punto d'interesse da casa in una ragionevole quantità di minuti, dove "ragionevole" di solito indica un numero ad una cifra.
Ufficio? 2 minuti, nella lentezza del risveglio mattutino.
Supermercato? 10 minuti.
Stazione? 9 minuti.
Facoltà di lettere per il corso di francese? 3 minuti.
Pub con gigantesca lavagna con l'indice delle 100 birre artigianali proposte? 1 minuto e mezzo. (Magari 4 al ritorno, per via dello zig-zag.)
... etc etc...

Sapere esattamente il tempo necessario per andare da A a B è di una poesia unica. Non che sia retaggio solo di Namur, tutte le piccole città godono di questa caratteristica, ma finisce direttamente tra le cose a cui mi sono abituata velocissimamente.

Pagare con la carta
La proporzione tra i pagamenti in contanti e quelli con carta sarà di 1:20.
Ristoranti, cinema, supermercati, uffici pubblici, café, biglietterie, boutique alimentari: dovunque si vada, è possibile pagare tramite la carta, e azzarderei quasi a dire che è il metodo preferito dagli esercenti. Lo si capisce dalla facilità con cui suddividono i conti: siamo in cinque in un ristorante e ognuno vuole pagare il proprio con la sua carta? Pas de problème!, è spesso cosa immediata e molto frequente (anche in ristoranti in cui si spendono 15 euro a testa, per dire).
Non che in Italia usare la carta sia più inusuale, ma la diffusione e la scioltezza di questa pratica qui sono impressionanti: ho pagato anche somme di cinque euro tramite carta, e ho visto pagarci dei caffé.
I locali che accettano solo contanti di solito sono guardati con sospetto ("cercano di evadere le tasse?"), a meno che non siano il pub con gigantesca lavagna con l'indice delle 100 birre artigianali proposte: in quel caso, ci sono 100 buoni motivi per perdonarli.

Il tempo (cronologico) belga
La maggior parte dei negozi chiude alle 18:00; qualche grande supermercato, alle 19:00 (rari, alle 20:00), ma giusto per permettere ai commercianti di fare la spesa. La frenesia della giornata, quindi, qui finisce prima.
Sarà questo, saranno le succitate distanze che permettono di fare molto in poco, non so. Ma il tempo sembra scorrere più lentamente: quasi nessuno va di fretta. Ho la sensazione di poter fare mille cose in una giornata (che poi non le faccia è un altro discorso), e che le giornate durino di più.
Questo, ovviamente, nel bene e nel male: la domenica Namur è una città fantasma, e tutto questo tempo "in più" bisogna riempirlo, in qualche modo. Leggendo, per esempio: il mio adorato Kindle diventa, in certe lunghe domeniche, un'estensione del mio braccio. Ho letto più da quando sono qui che durante lo scorso anno, il che forse ci dice più qualcosa dello scorso anno, che di queste poche settimane...

EDIT
Mi sono dimenticata una cosa fon-da-men-ta-le!

Il saluto
Come già scoprii arrivata a Londra, Paese che vai, saluto che trovi. Solo che mi ero scordata questa lezione di vita.
Salutarsi con i baci guancia a guancia: ciò che per noi è un gesto automatico che eseguiamo senza riflettere, in un Paese straniero richiede tutta un'altra consapevolezza.
In Italia sono due, e si porge inizialmente la guancia sinistra (fateci caso, la prossima volta che incontrate una persona con cui avete un minimo di confidenza). In Belgio si comincia con la destra.
Ora. Sapete cosa succede quando due persone porgono due guance diverse?
La pomiciata involontaria, ecco cosa succede. Giacché questo avviene quando ancora non ci si è abituati, è probabile che succeda con persone che state appena conoscendo e no, cominciare con un bacio rubato (che tra l'altro manco volete!) non è affatto simpatico.
Soprattutto se, oltre alla guancia sbagliata, offrite il numero di baci sbagliato: qui è uno solo, col risultato che con due, oltre ad invadere lo spazio personale di qualcuno che da voi si sta già allontanando, sembra di essere alla spasmodica ricerca di coccole.

A questa mi sono abituata quasi immediatamente, per ovvie ragioni.


A cos'altro mi sto abituando?
Alle reazioni dei Belgi di fronte ad una non-fracofona, ad esempio. Ma quelle meritano, da sole, un post a parte...