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Namur, Belgium
Gattofila, razionalmente disordinata, ossessivo-compulsiva part-time.

mercoledì 21 settembre 2016

Prendi un incontro in treno...

Domenica notte, interno treno.
È la penultima corsa per Namur del giorno, presa al volo causa ritardo dell'Eurostar: mi siedo, compilo il biglietto, mi sistemo il più comodamente possibile. Più per combattere la stanchezza e mantenere il cervello vagamente impegnato che per reale interesse, comincio a saltare da un sito all'altro con lo smartphone, fino a fermarmi su un blog di una tizia che parla di cura e acconciature di capelli ricci (alto tasso di cultura, mi rendo conto). Distrattamente scorro la pagina, e si susseguono una serie di immagini di trecce, colori, tagl"AENGMGPHAGNAFLPEPAVPOMAV W2QYTEICVNSMCLSOVFN!"

Giuro, è quello che il mio cervello ha recepito. Risvegliata da una sorta di assopita trance, metto a fuoco il mondo intorno a me e capisco che chi mi sta parlando è il tizio seduto ai posti accanto ai miei dall'altra parte del corridoio. L'apparente Klingon è dato dal fatto che ancora non destreggio l'ascolto periferico del francese, intendendo che capisco molto di quello che viene detto ma solo se mi concentro su chi sta parlando, mentre conversazioni captate per caso e di sfuggita sono ancora difficili da decifrare passivamente.
Una volta capito che la situazione richiede la mia attenzione, diventa tutto più... comprensibile.

"Scusa, mi dispiace ma stavo sbirciando sul tuo cellulare. Non tagliarti i capelli, che sono bellissimi così!"
"... mmm no, non li voglio tagliare."
"Ah, bene, bene. Perché davvero, tienili così. Al massimo puoi fare qualcosa al colore, ma tienili così!"
"... ok..."
"Bene, mi raccomando eh!"

Mentre cerco di capire se dovrei sentirmi imbarazzata, lusingata o preoccupata, comincio a pensare che magari fa il parrucchiere e si è sentito chiamato in causa. Un po' come quando sento gente dire cose fuori dal mondo riguardo alla matematica e mi devo mordere la lingua per non intervenire beceramente.*

Poi il tizio ha iniz ricominciato a bere, e tutto è tornato ad essere normale. Più o meno.




* Una volta, mentre studiavo in un'aula dell'università, un gruppo di tre studenti di biologia (almeno mi auguro del primo anno) intento a risolvere un esercizio, imputò il diverso risultato ottenuto al fatto che avessero invertito l'ordine dei fattori in una moltiplicazione: "Mica è uguale!".
Il mio autocontrollo per non saltare sul banco e urlare alla blasfemia fu messo ulteriormente a dura prova quando aggiunsero che "Dobbiamo aver fatto un errore, perché 0.4^6 diventa sicuramente grandissimo!".

venerdì 16 settembre 2016

British mon amour!

[In diretta da sotto la Manica: che emozione!]

Poco fa ero nella lounge d'attesa dell'Eurostar, aspettando che iniziassero le operazioni di imbarco. L'ultima volta che sono andata in Inghilterra è stato a Maggio, quindi sono stata un po' “colta di sorpresa” quando tutto ad un tratto mi sono ritrovata immersa in una delle lingue più belle del mondo (IMHO, of course): il British. Così musicale, così posh, così comprensibile!
Proprio poco tempo fa, parlando di accenti, ricordavo come alla fine del mio periodo londinese non solo il mio inglese era al suo punto di massimo splendore, ma da una pronuncia corretta ma senza accento aveva virato con forza verso il British, inconsapevolmente. Che gioia, una volta che me ne sono accorta!
Il tutto perso in poco tempo, ovviamente. E con quello anche molto vocabolario, che in caso di necessità e con sforzo inaudito può essere recuperato, ma mancando completamente di quella fluidità inconsapevole (e due) tipica di una buona conoscenza della lingua.
È inevitabile, quando non ci si esercita con una certa costanza: non solo, è anche importante avere la possibilità di parlare con qualcuno che parli la lingua fluentemente, magari madrelingua. Perché se è vero che parlo inglese ogni giorno da quando mi sono trasferita in Belgio, è anche vero che nella vita di tutti i giorni la lingua è un mezzo, non è uno scopo. E se è un mezzo, sarebbe inutile ricercare nella propria mente e nei propri muscoli facciali la memoria di quell'accento, se poi questo non viene compreso, richiedendo una ripetizione della frase con una pronuncia più mainstream. E se è un mezzo, sarebbe inutile utilizzare verbi meno comuni ma più corretti, se poi bisogna spiegarsi di nuovo, magari usando un polivalente “to do”.
Queste riflessioni sulla lontananza dall'inglese che fu mi portano a pensare al francese che sarà: è ancora presto, ovviamente, davvero troppo presto per saperlo, ma ho come la sensazione che non mi si adatterà come un guanto tanto quanto fece l'inglese.
Soprattutto, non riesco ad immaginare la versione di me francofona.
Sono assolutamente convinta che l'immagine di noi che il mondo percepisce cambi leggermente a seconda della lingua che parliamo, posto che questa sia parlata correttamente e senza accetto nazionale. Così come ad esempio la postura, l'abbigliamento e il trucco, la lingua è uno “strato” di cui ci ricopriamo e che determina sfumature che saranno uno dei tanti dettagli che costituiscono il quadro generale. Sto imparando il francese, e l'obiettivo è impararlo per bene: perché mi serve per vivere, perché sarebbe stupido non farlo avendo la possibilità di viverci immersa, perché è una sfida. Lo sto imparando, ma non sono sicura mi starà bene. Come quando si compra un paio di scarpe online.

Ad un certo punto ho pensato stupidamente che non voglio perdere la versione anglofona, che è un po' come pensare che non voglio perdere i jeans dal momento che oggi indosso degli altri pantaloni: i jeans non andranno da nessuna parte ma aspetteranno pazientemente nell'armadio, al massimo saranno nella sacca dei vestiti da lavare. Ci saranno periodi in cui li indosserò di più, altri in cui mi li vorrò meno, ma loro, da soli, non si sposteranno di un centimetro da dove li ho lasciati.*


Quindi oggi ho capito che imparare nuove lingue è come fare shopping: chissà che questa nuova visione non funzioni da incentivo...




* Ironicamente, i jeans sono sempre jeans, che sia italiano, inglese o francese.
E anche lo shopping.

giovedì 8 settembre 2016

Il segreto per la relazione a distanza perfetta.

La data di oggi, oltre che per quel dettagliuccio dell'armistizio del '43, rientra nei miei annali perché segna l'inizio della fase a distanza con G. Cioè, capiamoci, non è che prima ci si vedesse molto: tra due mesi filati negli Stati Uniti e viaggi vari in Inghilterra, non è che stesse a casa molto spesso comunque. Però da due anni la lontananza è ufficiale, con buona pace (...) per tutti.
Due anni.
Due anni e siamo ancora qui, cioè lì, cioè un po' qui e un po' lì, però insomma, c'è ancora un siamo, ecco.

Volete sapere il segreto per la relazione a distanza perfetta?

(Suspence)


(Rullo di tamburi)


Non esiste. Non esiste e mi sembra anche logico che sia così: ciascuno di noi è un'entità a parte, diversa da chiunque altro, che si relaziona con un'altra entità, anch'essa diversa da chiunque altro. E ogni entità quando è in coppia si relaziona in maniera diversa, sia dagli altri che da se stessa, perché ha a che fare con qualcun altro. Ogni coppia è un caso a sé stante, le dinamiche sono uniche ed è bello che sia così. È poi anche il motivo per cui secondo me bisogna essere sempre molto cauti nel dare consigli riguardo alle questioni di coppia, perché quel che può valere per me può essere deleterio per qualcuno altro. Ci sono certamente atteggiamenti che fanno più bene che male, ma sono talmente generici e iper citati da essere diventati dei cliché (Comunicazione! Fiducia! Tempo di qualità!).
Quindi mi spiace, non c'è una formula magica o un ricettario per far funzionare le cose in una relazione a distanza, ché se ci fosse ci scriverei un libro e guadagnerei una montagna di soldi e non la spargerei di certo al mondo così, gratis!


"Ma se non c'è un super segreto e non vuoi dare consigli, perché hai intitolato così il post?"
Per farvi cliccare sul link, per cos'altro sennò?!


Tutta questa premessa è oltremodo doverosa per sottolineare quanto tutto ciò che si può dire riguardo alle relazioni a distanza sia totalmente, inevitabilmente e fortunatamente relativo: l'esperienza di due persone è unica, così come sono uniche le persone che gli stanno attorno e le dinamiche che intercorrono tra queste. Lungi da me asserire allora che ciò che scrivo sia applicabile a chiunque, che chiunque la pensi allo stesso modo (chissà, magari una cosa che a me dà sui nervi ad altri può essere gradita) e soprattutto che dobbiate essere d'accordo. Anche perché come diceva Socrate, Io so di non sape"Si vabbé, ok, chiaro. Ma di che stiamo parlando?! Giungi ad un punto, diamine!"

Parliamo di come trattare l'Homo distantiarelationanticus. [ci stavo arrivando, comunque...]


L'homo distantiarelationanticus (d'ora in poi, HD) è una specie che si è evoluta soprattutto in era moderna, e si caratterizza per la sua testardaggine nel mantenere una relazione sentimentale con un altro esemplare della stessa specie ubicato ad una certa distanza (o perlomeno, l'homo è convinto che l'altro sia della stessa specie; a volte capita non lo sia ma allora poi si creano casini ed è tutta un'altra storia). Questa distanza è tale per cui non è possibile conciliare l'incontrarsi frequentemente con la propria quotidianità, soprattutto per quel piccolo problema che le ore sono sempre 24 in un giorno. Ah, e che i trasporti costano un accidente.
A causa di questa sua condizione, l'HD è solitamente circondato nel suo ambiente naturale da esemplari di Homo normorelationanticus (quelli che si relazionano con altri normalmente, qualunque cosa questo significhi) e di Homo nonrelationanticus (i single): pur appartenendo a specie diverse, tutte queste entità convivono tranquillamente in uno stesso spazio interagendo tra loro. Interagisci di qua, interagisci di là, è facile stilare una raccolta delle situazioni più tipiche che capitano all'HD. O meglio, quelle che più tipicamente sono capitate a me (ricordate che tutto è relativo e personale?).

"Sai, io e lui/lei siamo molto impegnati, non ci vediamo da due giorni."
"Cioè no sai, riusciamo a vederci tranquillamente tutta la settimana, ma non possiamo dormire insieme. E dormire insieme è importante, è un momento così intimo!"
[n.d.a. parlo proprio del dormire quale attività in cui si chiudono gli occhi e si entra in fase R.E.M.]
Ecco. Allora. Qui serve una piccola premessa: un grosso rischio di quando si è in una situazione "difficile" è quello di considerare irrilevante e sciocco qualunque altra situazione la cui difficoltà, secondo un qualche criterio non meglio specificato, sia inferiore. Questo è sbagliato, perché non è giusto minimizzare i problemi degli altri per il semplice fatto che li consideriamo "meno problematici" dei nostri: la vita non è una gara a chi sta peggio ed è sempre bene esserci per qualcuno che ha bisogno di una parola, di un consiglio, o anche solo di sfogarsi. [Fine premessa]
Però. Però un po' di sensibilità dovrebbe stare anche dall'altra parte, nel capire la condizione di distantiarelationanticus della persona con cui ci si sfoga e nel pensare due volte se sia il caso di proporre la questione.
Non vi vedete da due giorni? Eh, temo proprio che la vostra relazione sia compromessa da una così lunga separazione.
Non potete dormire insieme per una settimana? A parte che è probabile che l'homo sia ancora più sensibile al concetto del dormire nello stesso letto quale occasione in cui si mantiene un legame, ma non mi lamenterei, considerando la frequenza con cui potete... che ne so, incontrarvi, abbracciarvi, guardarvi negli occhi. Perché via Skype (o simili) non ci si può guardare negli occhi: lo si potrebbe logicamente dedurre immediatamente, però la prima volta che si realizza ci si resta davvero un po' male. Quindi ecco, magari se riuscite a vedervi per tutta la settimana, forse è una cosa di cui potete evitare di lamentarvi con un HD.

"Eh, ma per voi è facile. Ai miei tempi non c'era [inserire nome di tecnologia]"
Questa è, ovviamente, la preferita delle precedenti generazioni. "Ai miei tempi c'era solo il telefono, o la lettera". Bene, sono contentissima che ce l'abbiate fatta lo stesso, davvero (anche io, in fondo, sono il risultato di uno di questi successi).
Ma cosa ci dovrei fare io con una frase del genere?
È di consolazione? Beh, si, ma ci sono tante altre cose che rendono la mia vita migliore rispetto a 50, 60, 70 anni fa. La sicurezza dell'acqua corrente in casa e il frigorifero, per esempio. Capisco però l'intento lodevole e non mi sento di recriminare poi troppo, ma insomma, non è che sappia farci granché, con questa frase.
Vuole minimizzare le difficoltà? La premessa del punto precedente vale in entrambi i sensi.

"Ogni quanto vi vedete? Due settimane? Ma siete fortunati!"
Così come non si dovrebbe mai minimizzare situazioni che appaiono meno "gravi" della propria, non bisogna mai scordarsi del fatto che esistono persone che ne vivono di ben più intense: penso a chi vive si a distanza, ma a decine di migliaia di chilometri, o magari in continenti diversi. Ci si vede poche volte all'anno, si spende un patrimonio e si combatte ogni giorno con una differenza di fuso orario notevole (abbiamo passato anche quella fase, ed è estremamente più difficile).
Quindi si, siamo fortunati nel poterci vedere in media ogni due settimane, e ci prendiamo cura di questa possibilità al massimo delle nostre capacità.
Ma (era ovvio ci fosse un ma).
Innanzitutto, abbiamo trascorso un anno in cui, se andava bene, ci si vedeva una volta al mese: quindi è molto bello che ora la frequenza sia ragguardevole, ma non è sempre stato così. In secondo luogo, niente è gratis: è un investimento di soldi, di tempo e di energie, che si affronta con la giuoia nel cuore (volutamente scritto giuoia) e un bel sorriso stampato in faccia, ma è comunque un investimento. Soprattutto quando sai che da casa a casa ci vogliono sette ore e mezza, se va bene, quando i costi ti permettono di evitare di viaggiare di notte per 15 ore. Tutto questo per un weekend, s'intende. Quindi si, chiaramente ci sono delle condizioni favorevoli, ma non userei esattamente il termine "fortunati".

"Io non potrei mai fare una cosa del genere, è impossibile."
Questo è un punto delicato. Succedeva particolarmente all'inizio, quando la situazione era nuova sia per noi che per le persone intorno a noi. Ora, non voglio addentrarmi troppo nei dettagli e in profondità su quelle che erano le mie condizioni psicologiche a quei tempi, però credo che una metafora sarà efficace.
Immaginate di essere alla base di una montagna mai esplorata, pronti per iniziare la scalata; non avete mai scalato una montagna in vita vostra, ma vi tocca e vi siete preparati al meglio di come avete potuto: avete ascoltato storie di altri che l'hanno fatto (anche se non proprio su quella montagna), avete sistemato tutto l'equipaggiamento che ritenevate necessario (sperando sia sufficiente), vi siete preparati psicologicamente ad affrontare e superare tutto, ma anche al peggio. Proprio quel giorno è nuvoloso, quindi già a pochi metri di altezza la visibilità è scarsa, non si vede il percorso, non si vede la cima: potrebbe esserci una tormenta di neve o un sole splendente, non lo potete sapere. Decisi a non farvi scoraggiare, vi apprestate a percorrere il cammino e salutate le persone che sono venute a darvi supporto: vi girate e li vedete guardare verso quella punta che non si vede, preoccupati come se toccasse a loro. Guardandovi increduli e spaventati vi dicono "io non potrei mai, è un'impresa impossibile". Non molto incoraggiante, eh?
Le prime volte uno accusa il colpo, poi si forma il callo e dopo un po' non ci si pensa più. Anche perché, come parrebbe, non è proprio così impossibile.
Doveste incontrare un altro HD, magari evitate di essere così drastici, anche perché non sapete necessariamente quali sono le condizioni psicologiche della persona che avreste di fronte: potreste trovarvi nel mezzo di un crollo emotivo e non è mai una cosa simpatica, ecco. Sbandierare l'impossibilità non fa bene, d'altronde neanche cercare di convincere che sarà una passeggiata con i minipony è salutare (e poi è poco credibile), quindi trovate una via di mezzo. Una volta A. mi disse: "è difficile, ma se dovessi scommettere su qualcuno, lo farei su voi due". Mi piacque molto.


Per onestà intellettuale, è giusto precisare che tutte queste frasi o situazioni vanno inserite in un contesto di persone che ci hanno supportato e continuano a supportarci (e magari anche sopportarci), che credono davvero che possiamo affrontare il tutto (perché l'avventura è appena cominciata, mica finirà a breve!). Lungi da me scrivere che siamo soli contro il resto del mondo. E poi basta, ché ho appena cancellato dieci righe di melassa (e non per G.).

PS: Nessun G. è stato maltrattato per la scrittura di questo post. E neanche durante gli anni precedenti (chissà se concorda...).




* Amici, parenti e conoscenti: qualora vi riconosceste in una di tali situazioni... beh, si, è possibile che siate voi. Ché qui mica si parla di aria fritta. Lasciate che vi consoli qualora vi sentiate punti sul vivo dicendovi che: non siete stati gli unici; (quasi) niente di tutto questo è davvero importante, si fa per (far) ridere, spero; non è grave, visto che siamo ancora amici, parenti e... vabbé, conoscenti.

lunedì 5 settembre 2016

"Come si dichiara?" Consapevole, Vostro Onore.

Quest'estate ho compiuto ventisette anni. Ventisette.
Mi piace il numero ventisette, ci sono un sacco di 3 (uno dei miei numeri preferiti): è 3*3*3, ne mancano 3 per arrivare a 30, trentatrè trent.

Mi sento più adulta? Mmm naaaaaaa, non direi.
Sento di aver raggiunto comunque una ragguardevole età? Eh, di questo si può parlare. È indubbio che cominci a notare che il passare del tempo ha avuto certi effetti su mente e spirito: lungi da me dire che sono diventata vecchia (pur non nutrendo alcun timore verso il naturale avanzamento dell'età), ma mi rendo conto che alcune cose sono cambiate. Non mi stupirei affatto se cambiassero nuovamente da qui a due, tre o cinque anni, ma per il momento la situazione è questa ed è bene (per me, non so per altri) che io ne prenda serenamente atto.

Give me baby one more list!
Mi sembra coerente iniziare una lista sottolineando come abbia imparato che il mio cervello organizza le cose per liste. Ah, l'onnipotenza di sapere di star pianificando qualcosa mentre appare un nuovo pallino per un nuovo oggetto sulla lista! Ah, la soddisfazione di sbarrare qualcosa portato a termine!
Oltre alla classica ma mai fuori moda lista della spesa, ne compilo per innumerevoli scopi: obiettivi per la giornata lavorativa, obiettivi a lungo termine, cose da fare appena tornata a casa prima che possa rilassarmi (perché conoscendomi, una volta premuto il pulsante relax è finita la giornata), film che voglio vedere, idee per regali futuri. In qualche particolare caso per preparare la valigia, anche se ormai mi sposto talmente spesso che la maggior parte delle volte la preparo in automatico, al punto che sembra si faccia da sola: specialmente per i weekend in Inghilterra, ormai la valigia è standard. Persino i miei post sono spesso organizzati per punti: da un lato è più facile scrivere piccoli tasselli che non devono necessariamente essere collegati da perifrasi, trovando perfetta motivazione nell'esser gli uni accanto agli altri per il semplice fatto di far parte di una lista; dall'altro, li penso spesso direttamente così, e trasporre la struttura con cui vengono ideati mi sembra più autentico.

Sette e mezzo.
Non ho preso il vizio del gioco d'azzardo: semplicemente sono arrivata al punto di sapere che il mio corpo e la mia mente hanno bisogno di sette ore e mezzo (minimo) di sonno a notte. Addio anni di gioventù, in cui studio, vita sociale e impegni del quotidiano demandavano svariate ore notturne e le successive ore mattutine: con quali leggiadria e spensieratezza (dopo il caffé) affrontavo una giornata intera e impegnativa con poche ore di sonno alle spalle. Quando capita ultimamente tengo botta per un po', ma pur mantenendo (a fatica) le apparenze di una persona vigile e produttiva, dentro di me so con quale sforzo sto tenendo gli occhi aperti.
Ad onor del vero, ammetterò che il costante calo di attività fisica da me svolta può aver contribuito enormemente, sia per la mancanza di stamina sia per una minor qualità del sonno, che nel caso di poche ore disponibili è fondamentale.

Se bella vuoi apparire, un poco devi soffr ma anche no.
Si arriva ad un certo punto in cui la manutenzione di un fisico quantomeno non dolorante diventa prioritaria rispetto a tutta una serie di obiettivi estetici che perseguivo senza problemi da giovane ventenne. L'Esempio con la E maiuscola riguarda l'asciugatura dei capelli: da portatrice sana di chioma riccia, so bene che la teoria richiederebbe asciugatura "all'aria" o eventualmente un phon (col diffusore! Mi raccomando il diffusore!) a temperatura medio-bassa. Ora, una temperatura medio-bassa comporta necessariamente tempi di asciugatura etern più lunghi, col risultato che spesso, anche in inverno, la mia innata pigrizia mi portava a non asciugarli proprio bene bene bene. E, in ogni caso, durante il processo si sta con i capelli umidi per un bel po'.
"La cervicale!", sbraitava Madre mentre mi tastava i capelli sull'uscio di casa.
"La cervicale!", ad un certo punto ho cominciato ad urlarmi addosso da sola mentre il mio collo aveva la stessa capacità motoria di un container. Avete mai visto un container muoversi da solo? Ecco.
Va da sé che ora qualunque "regola" estetica (dall'asciugatura dei capelli al vestiario) viene applicata solo se passa rigorosamente il test: "Se lo faccio/lo (non) indosso, avrò gli acciacchi da vecchia?".
Mestizia.

Mi conosco, mascherina!
Arrivata alla veneranda età di ventisette anni, posso dire di avere un'ampia conoscenza di ciò che funziona e ciò che no.
Voglio essere sicura di alzarmi presto senza avere una ragione impellente a parte l'essere più produttiva? Devo lasciare la sveglia lontana dal letto per costringermi ad alzarmi, pena il rinvio della sveglia per un'ora o più.
Giornate calde e afose senza zuccheri a intervalli regolari? Se non voglio trovarmi stesa incosciente per terra, evito.
Non voglio cadere in tentazione con dolci, birre e patatine? Non devo averli in casa.
Voglio andare a letto ad un orario decente? Non devo sdraiarmi col computer perché "tanto solo cinque minuti". Ammetto la sconfitta su questo punto, ci casco ancora come una pera cotta maledicendomi in aramaico antico la mattina dopo (vedi il punto "Sette e mezzo").
E così via.

Aldilà di quelle che sono le inezie della vita quotidiana, immagino che la visione più generale sia che arrivata ai 27 io abbia acquisito consapevolezza. Che non è saggezza, beninteso. È più semplicemente l'accumulo di esperienza e l'aver trascorso tutta la vita con... beh, me: si arriva ad essere consapevoli dei propri pregi e dei propri difetti, delle proprie cose buone e di quelle meno, ma soprattutto (ed è qui secondo me la cosa importante) si impara ad accettarli.
Accettazione non vuol dire arrendevolezza: vuol dire conoscere la propria situazione attuale non negando l'evidenza, avendo ben chiaro cosa sarebbe bene cambiare e cosa no, cosa ci si può permettere e cosa no. Questo vale ovviamente non solo per il rapporto con se stessi, ma anche con il mondo esterno: in particolare ora sono consapevole del fatto che non si può piacere a tutti (oh, regà, amen!) e che bisogna saper dire di no, a volte. Non avendo proprio un carattere delicato e arrendevole, il primo punto mi era chiaro da un pezzo, anche se non l'avevo accettato completamente; sul secondo ci stiamo ancora lavorando (io e le mie molteplici proiezioni mentali), soprattutto se giustificare il no richiede una critica nei confronti del richiedente.
Questi mesi un po' solitari in Belgio sono stati una tappa importante per raggiungere questa consapevolezza: non solo perché il vivere (di nuovo?) da sola richiede ovviamente una gestione diversa di sé e del proprio tempo, ma anche perché il diverso ritmo della vita sociale lascia molto spazio alla riflessione e al tirare le somme.

"Vabbé, consapevolezza qua, consapevolezza là, mo che ce fai?"
Eh, intanto me la tengo. Poi forse coi trenta m'arriva l'illuminazione.