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Namur, Belgium
Gattofila, razionalmente disordinata, ossessivo-compulsiva part-time.

lunedì 29 maggio 2017

Amarcord: About streets, bridges and clocks.


È stato un weekend molto lungo in Belgio, cominciato giovedì: ne ho approfittato per rivedere, finalmente, K. e M., dopo quattro anni dall'ultima volta che ci siamo viste tutte insieme. E sono ripassata per certi posti, e alcune cose sono sempre uguali, altre completamente diverse, un po' come capita di solito quando passano degli anni che sembrano ere geologiche.
Il blog nacque appena mi trasferii a Londra e sebbene ad un certo punto sia partito alla deriva, qualche cosa che mi fa piacere rileggere c'è: allora ogni tanto, aspettatevi un po' di amarcord.


[Originally written: 16/09/12]

I was walking towards my bus station, after work, and I was along my street.
My street has nothing which is particular; it is not even so nice, right now, because of some works that are doing on a building.
My street is behind the Lyceum Theatre, so nobody cares about it, because the interesting part is at the opposite side.
I can't even remember the exact name of my street.

But my street is MY street.
It is the one that I walked through the last four months, almost every day.
It saw me at half past six in the morning, in both directions: going to work or coming back home.
It is the one that I know most.
And it is going to be one of those that I will miss most.

You understand that you really lived in one place when you know that you are going to miss things and places that most of the people do not care about, or do not even know; and you will miss them because they were yours, they were there when you were looking around to find something familiar, something that could calm you down when your mind was running too fast, when you felt a little bit lost.
They were those that made you feel home, whenever you were not sure of being in the right place of the world.

So I am not going to miss the noble, classic clock of the Big Ben, but the vey simple one of the Shell Mex House: the one that I look at every day, most of the times thinking "I am too early. Again.", sometimes "What the hell, I have FIVE minutes to go to work".
I am not going to miss the London Bridge, or the (horrible) famous Tower Bridge, but the Waterloo one, my bridge. That bridge that I decided to cross on foot when I was overthinking, or when I had a cold beer in my hand and just wanted to relax, or when we were going back home after a fun night and we said "Let's cross the river on foot!".
[And, let me stress this: there is the best view of London, from the Waterloo bridge.]
I am not going to miss the shopping Oxford Street, but I am going to miss my street, which is so important that I do not even need a name, for it.

mercoledì 24 maggio 2017

Un post (letteralmente) pieno di comfort.

Comfort zone: quell'insieme di luoghi, persone e situazioni in cui ci sentiamo perfettamente a nostro agio. Può essere habitat naturale, rifugio o gabbia: è facile limitarsi a fare ciò di cui si è sicuri, ed è altrettanto facile precludersi delle esperienze o delle opportunità per paura di affrontare l'ignoto o il temuto. Si rischia allora di restare lì, nel proprio orticello, quando magari dall'altra parte c'è un intero mondo e attraversare la staccionata non sarebbe poi così difficile: se ci si provasse si scoprirebbe che a volte c'è addirittura un comodissimo cancello e non si deve manco fare la fatica di saltare a mo' di Olio Cuore.

Dicono che "La magia comincia al di là della tua comfort zone", ma non so se sia proprio sempre così; se da un lato è vero che per fare molte cose bellissime nella vita bisogna uscirne e affrontare un iniziale disagio, dall'altro l'idea che uno debba necessariamente discostarsi dalla propria quotidianità (fisica o mentale che sia) per trovare la "vita vera" è un po' limitata: la maggior parte delle volte è probabilmente così, ma mano a mano che divento più vecch saggia la lista degli assoluti con cui mi trovo d'accordo si riduce sempre più.

A questa cosa della comfort zone pensavo ieri, mentre alla fine di una giornata tranquilla ma lunga mi sono fatta forza e sono uscita di casa per andare in un posto in cui sapevo avrei dovuto parlare molto francese: di per sé non sarebbe un problema, non fosse che la mia capacità linguistica è inversamente proporzionale alla mia stanchezza. Questo implica che se la mattina sembro quasi un essere umano con qualche mese di francese alle spalle, a fine giornata mi trasformo in un gibbone sgrammaticato e titubante. E no, se ve lo steste chiedendo, non è una cosa simpatica.
In un momento di lucidità (o di bipolarismo, dipende dai punti di vista), per risolvere la situazione ho lanciato delle noccioline fuori dalla porta, il gibbone si è precipitato fuori di casa e la parte razionale ha chiuso la porta. E quindi niente, siamo andati tutti.

Personalità zoologiche multiple a parte, l'episodio mi ha fatto ruzzolare giù per la strada della memoria e, diamine!, sono anni che esco dalla comfort zone. In modi più o meno ovvi, più o meno conclamati, più o meno dichiarati, ma sono sempre lì, a cercare di spostare il limite un po' più in là.
Quello su cui i fautori della magia che comincia bla bla bla non si soffermano, però, è cosa succede dopo: magari sbaglio io, eh!, ma ho l'impressione che si parta dal presupposto che una volta messo un piede fuori, automaticamente si ridisegnino i confini e la comfort zone si adatti.
Mica vero.
Spesso succede, ed è una sensazione fantastica: si superano dei limiti, immaginari o reali che siano, e ci si rende conto che lo si può fare, che ciò che pensavamo impossibile per noi non lo è, e allora via, si apre un nuovo pezzo di mondo. Un po' come quando la sottoscritta, a cui in genere non piace il pesce, ha assaggiato con timore per la prima volta il sushi: amore a primo boccone, datemene ancora e per sempre, sono disposta a morirne (ok, l'esempio non è dei più edificanti ma rende l'idea).
Altre volte invece no. Sei lì, di fronte ad un certo tipo di esperienza e con passo deciso ti incammini, e per un po' la comfort zone sembra adattarsi; poi però ti accorgi che si, il limite lo stai spostando, ma funziona come un elastico: ti lascia andare per un po', ma tirandoti sempre indietro e tornando al suo posto appena lasci andare la presa. E allora ogni volta che vai in quella direzione è un po' come se fosse la prima, sembra di non fare progressi e di non cambiare lo stato delle cose. È frustrante, mette a disagio (per definizione), e dopo qualche volte trasmette un senso di sconfitta e di ineluttabilità, perché sai che indipendentemente dall'impegno che ci metti, quel dannato elastico tornerà sempre indietro.
Forse vuol dire che semplicemente non fa per noi: "la magia comincia al di là della tua comfort zone" è tremendamente semplicistico, perché non è detto che una cosa per cui ci sentiamo inizialmente a disagio una volta vissuta debba necessariamente trasformarsi in qualcosa di piacevole. È chiaramente fuori dalla mia comfort zone l'andare in giro nuda per strada, ma non è che se lo facessi una volta, allora andrebbe poi sempre bene: sarei solo ancora più sicura che non è una cosa adatta a me (e alla decenza pubblica e al codice penale o civile, se è per questo).
O forse è solo dovuto al fatto che affrontiamo situazioni a cui siamo per nostra natura più sensibili: le nostre difese sono più tenaci perché ne abbiamo più timore. Se non vi è niente di intrinsecamente negativo (come può esserlo l'andare in giro nuda per strada), forse vale la pena sforzarsi ancora un po', incamminarsi ancora una volta col passo un po' più sicuro della precedente, testare ancora la resistenza. Arriverà poi un momento in cui si riuscirà o ci si arrenderà, è probabile che la questione si riduca ad un discorso di testardaggine e sforzo mentale: forse vale la pena provare in ogni caso, può essere che il processo in sé sia una lezione sufficiente.
In fondo, da portatrice sana di capelli ingombranti ho sperimentato una grande verità: nessun elastico è per sempre.

martedì 16 maggio 2017

I Belgi fanno cose: guidare.

[ Disclaimer: "I Belgi fanno cose" è una sorta di rubrica a cui sto pensando da un po' di tempo, ed infine mi sono decisa a cominciare. Tutti i post relativi, compreso il seguente, sono ad alto tasso di generalizzazione. Si tratta di un processo deduttivo a partire dal campione poco statistico che riesco ad osservare: quindi non solo "i Namurensi" sarebbe già poco esatto, ma "i Belgi" è davvero un'enorme generalizzare. Sappiatelo. Io lo so, ma me ne sono già ampiamente fatta una ragione e lo scriverò comunque. ]

I Belgi hanno un rapporto estremamente particolare con le automobili, sia da un punto di vista meccanico-pratico che concettuale: in quanto guidatrice italiana, nonché esponente di uno stile di guida "sportivo" e "nervoso", non riesco a concepire nessuna delle due cose, che sono ancora tuttora fonte di incredulità.
Una diapositiva di una mia tranquilla giornata al volante.
A quanto pare, i Belgi non hanno la minima percezione della macchina che guidano, e questo lo si intuisce da tre indizi chiave:
  1. l'evidente difficoltà in cui si trovano nel momento in cui sulla strada si affaccia il temibile nemico: l'ostacolo inaspettato. Sia esso un camioncino abbarbicato sul marciapiede alla meno peggio su una strada ad una corsia o un cantiere stradale su un ampia strada principale, non importa: il Belga, non vedendo più chiara davanti a sé la via, mediamente entra nel panico. Dapprima si ferma, aspettando. Aspettando cosa, non è ben chiaro, forse esiste una task force specializzata di cui io non sono a conoscenza, che in casi simili sbuca dal cespuglio e rimuove l'impedimento, non so. Due le cose: o il servizio fa schifo (mai visti all'opera) o il Belga sta aspettando inutilmente. Io ho visto succedere solo la seconda, per cui l'autista si arrende dopo un po' all'idea di dover attivamente fare qualcosa e intuisce che può utilizzare il volante per cercare di oltrepassare l'ostacolo.
    Lì capisci come tutti siano convinti di essere alla guida del Titanic. Manovre fatte a 2 km/h avendo un margine di un metro per parte, controllando venti volte tutti gli specchietti a disposizione (compreso quello da borsa, se applicabile) e con qualche pausa nel mezzo per riprendersi dallo sforzo mentale. Non hanno la minima idea, in genere, di dove finisca la propria macchina e di quali spostamenti possano permettersi di fare.
    Il fatto che dalla coda di macchine che nel frattempo si sono accumulate non risuoni neanche un clacson è dovuto all'essere coscienti che la difficoltà sarà condivisa e dal forsennato rispetto delle regole (vedi più in basso).
  2. l'assoluta creatività nel parcheggiare. Ho visto cose che voi umani... I peggiori parcheggi di cui abbia memoria, messi in scena indistintamente da uomini, donne, giovani e anziani. Rarissime le eccezioni, ma d'altronde se non sai dove finisce l'aria e comincia la tua auto, è un po' come cucinare senza avere il senso del gusto, come giocare ad un gioco senza conoscerne le regole, come trasferirsi in Vallonia senza sapere il francese: cerchi di destreggiarti grazie al caso.
  3. le incredibili sinfonie dei motori. Se c'è una cosa che mi fa soffrire terribilmente, fisicamente e non, è sentire il rumore di un motore con i giri troppo alti: non capisco mai cosa ci sia di così tanto difficile nel cambiare marcia, è davvero fuori da qualunque mio schema di ragionamento. Oltre al fatto che la sgradevole sensazione è quasi la stessa di quella delle unghie sulla lavagna. Ma loro sembrano non accorgersene o sono immuni. O non sanno come mettere fine a tale agonia, ma mi rifiuto di crederlo.
A questi problemi di percezione, che evidentemente costituiscono da sé una grossa limitazione per una corretta mobilità a bordo di un'automobile, si aggiunge anche una religiosissima, al limite del culto, osservanza del codice stradale.
"Ci stai forse dicendo che dovremmo essere tutti dei pirati della strada?"
Per quanto io tenda ad avere problemi con i limiti di velocità no, non sto propagandando di fare quel che si vuole, ma di aggiungere alla conoscenza e al rispetto delle norme anche un briciolo di buon senso. Ma proseguiamo con un paio di esempi.

Immissione in una rotonda. In Belgio le rotonde sono tutte "alla francese", per cui ha la precedenza chi sta già percorrendo la rotonda: se questo vi suona ovvio, sappiate che l'ultima volta che ho controllato (comunque, non troppo tempo fa) il codice stradale italiano era piuttosto vago a riguardo, e in teoria, in mancanza di cartello esplicito, le strade che si immettono, provenendo da destra, avevano diritto di precedenza. Avrei potuto controllare fosse ancora così ma sono pigra.
Quindi, dicevamo, l'immissione.
A priori quindi la precedenza l'hanno coloro che sono già all'interno della rotonda: per me questo significa che se penso di riuscire ad immettermi senza costringere altri a eseguire manovre o anche solo rallentare, lo faccio. Certo, questo significa conoscere la propria macchina e saper valutare (più o meno inconsapevolmente) le velocità relative.
Loro no. Loro la precedenza la danno, a prescindere. Potrebbe esserci un bradipo dalla parte opposta della rotonda, appena immesso, e loro aspetterebbero quella manciata di ore per capire quali sono le sue intenzioni. E poi, forse, deciderebbero il da farsi. Sempre che non appaia un semovente camaleonte da qualche entrata precedente, ovviamente.

I pedoni. Ora, qui il buon senso ha ancora più importanza. Sono forse io quella che quando è alla guida si ferma ad ogni striscia pedonale appena si affaccia un timido pedone? No. Si. Dipende.
Se dallo specchietto retrovisore vedo che dietro a me non c'è nessuno, il pedone può aspettare quei cinque secondi in più che a lui non cambieranno la vita, mentre per me significherebbero dover frenare, aspettare, ripartire. E lo dico anche da pedona, eh!, mi sembra veramente inutile quando qualcuno si ferma per farmi attraversare la strada e dietro di lui c'è la landa desolata. Se invece dietro di me ci sono delle macchine e non appare ovvio quando apparirà uno spazio per il povero pedone, allora mi fermo e mi assicuro che riesca ad attraversare senza dover aspettare delle ere geologiche. Buon senso.
Qui il pedone è sacro. Stupidamente sacro. Ho fatto fermare delle macchine semplicemente chiaccherando con un amico, da fermi, a qualche metro dalle strisce: sia mai che ci prendesse lo sghiribizzo di attraversare all'improvviso, eh! Conosco persone che hanno attraversato la strada anche se non dovevano, per il senso di colpa di aver fatto fermare involontariamente delle macchine. È talmente insito in loro il dovere di fermarsi, che non contemplano minimamente altre possibilità. Una volta (ma è solo uno di tanti esempi) ero sul bordo del marciapiede, una macchina stava arrivando a velocità abbastanza sostenuta; se avesse cominciato a rallentare quando mi ha vista (e so che mi ha vista con abbondanti metri di anticipo) avrei tranquillamente avuto tutto il tempo di attraversare e arrivare dall'altra parte senza dover aspettare e senza bisogno che si fermasse: ma lui no, lui si sarebbe per forza dovuto fermare. Tuoni fulmini e saette se non si fosse fermato! Allora ha addirittura accelerato per arrivare prima al momento dell'arresto. Lui ha inchiodato, io ho dovuto aspettare, ci abbiamo perso tutti. Ma d'altronde non avrebbe potuto non farlo, no? Il dio del codice stradale avrebbe scatenato la sua possente ira su di lui. L'autocombustione della patente, l'undicesima piaga.
Sono arrivata al punto che quando mi accorgo di stare per arrivare sul ciglio della strada in una situazione "a rischio", tipo una macchina che sopraggiunge in solitaria e che si fermerebbe inutilmente, rallento, in modo da essere sulle strisce dopo il passaggio della macchina stessa.

Quando mi chiedono perché non ho la macchina e nessuna intenzione di averne una qui in Belgio rispondo sempre che è perché non mi serve. Ciò è ovviamente vero, ma sotto sotto penso spesso che non sono programmata per guidare così: finirei probabilmente sulla stampa locale come "la solita italiana" attaccata al clacson.

Ps: Clacson che ovviamente non si suona se non in caso di pericolo imminente, così come recita, ovviamente, il Sacro Codice (stradale).

sabato 6 maggio 2017

Il lusso nel viaggiare.

Se qualche anno fa qualcuno mi avesse detto che avrei vissuto all'estero, viaggiato abbastanza spesso per vedere posti nuovi, studiato per il Dottorato, avuto una relazione a distanza e per questo viaggiato molto spesso (ma senza posti nuovi), imparato una nuova lingua (ok, ci stiamo ancora un po' lavorando), etc etc, sarei stata sbalordita. E poi molto contenta ma incredula, perché ad un certo punto la mia vita stava prendendo tutta un'altra piega e comunque non avrei mai considerato certe possibilità. Però l'idea di essere sempre pronta a partire con lo zaino in spalla ha sempre avuto un certo fascino, per cui per quanto implausibile allora, mi ci sarei potuta immaginare tranquillamente.
Poi le cose sono molto cambiate, io sono molto cambiata, tutto è molto cambiato, la coda è molto cambi* ed eccomi qua, a farlo davvero.

Quella che la me di allora non avrebbe sicuramente immaginato è l'aspetto pratico di cosa voglia dire davvero il partire spesso con lo zaino in spalla. E una delle implicazioni è l'impegno in termini di tempo, energie e denaro. L'oculato uso di quest'ultimo, in particolare, determina moltissimo la qualità del viaggio (ovvietà per tutti quest'oggi!) e d'altronde per come sono stata cresciuta e per una buona manciata di senso pratico, tendo a scegliere l'opzione con meno fronzoli e più risparmio possibili, anche quando potrei permettermi di spendere un qualcosa in più. L'idea di base è che se mi spostassi un numero limitato di volte, quei venti o trenta euro in più non farebbero molto la differenza, ma parlando di decine di viaggi all'anno, il risparmio alla fine è considerevole.
Questo tipo di ragionamento si applica in particolar modo quando sono sul punto di prenotare un aereo: che ve lo dico a fa', Ryanair è una filosofia di vita**.
L'aspetto positivo di Ryanair è ovviamente il costo contenuto, che permette di muoversi a volte a prezzi ridicoli: l'anno scorso per Pasqua sono tornata a casa con 35 euro, a/r. Trentacinque euro.
L'aspetto negativo è... principalmente tutto il resto. Neanche più la puntualità è una garanzia, tra me e G. abbiamo collezionato ore di ritardo che se fosse una raccolta punti avremmo già ricevuto il set di pentole (aggiungendo, ovviamente, un piccolo contributo di 49,99 euro).
Il volo in sé, per quanto mi riguarda, è tremendo. Io ho la fortuna di addormentarmi facilmente in aereo, soprattutto ma non solo quando sono sul lato finestrino, e questo mi permette di evitare: vendite di panini caldi e patatine fritte (...), bibite fresche e snack; pubblicità a prodotti del duty free che eccezionalmente per oggi (e uno!) sono a tal prezzo vantaggioso; vendita di gratta e vinci il cui ricavato è devoluto in beneficenza che eccezionalmente per oggi (e due!) si possono acquistare al prezzo di 10 euro per 14 biglietti. D'altronde dormire non mi salva dal destino dello spazio minimo legale per le gambe: io normalmente viaggio per un paio d'ore ed è sostenibile, ma già quella volta che facemmo Roma-Oslo cominciavo ad innervosirmi intensamente per via del fastidio.
Gli aeroporti che normalmente si attraversano viaggiando Ryanair, poi, sono piuttosto deprimenti: dopo aver raggiunto 'sta landa desolata e lontana***, ci si ritrova in aeroporti piccoli, con due negozi in croce, pochi spazi per sedersi durante l'attesa, poche e discutibili opzioni per mangiare. Cerco di evitare il più possibile di mangiare in aeroporto, per questioni di gusto e, di nuovo, economiche, ma a volte è inevitabile. Nonostante la fame da lupi con la quale spesso mi ritrovo in queste situazioni, le possibilità per mangiare non stimolano di certo l'appetito; l'ultima volta che sono passata da Charleroi ho scelto il meno peggio, polpette al sugo e patatine fritte: lo so che immagine vi si è formata nella vostra testa, perché è la stessa che è affissa a "rappresentazione" nel menù da cui si può scegliere, ma è stato uno di quei casi di pubblicità ingannevole. Io che di solito fagocito il cibo, l'ho finito giusto perché non c'era altro. Pur di allontanare da me parte del calice, me ne sono rovesciata un po' addosso (true story, sono tornata a casa con una bella macchia rossa. Sulla camicia bianca.).

Voi starete leggendo e vi chiederete: ma questa, ma cosa vuole? Scrive un post intero per lamentarsi?
Chiariamo: sia ringraziata Ryanair e la possibilità che ci dà di viaggiare a poco, e di tenerci uniti (io e G., io e casa, casa e G., io e G. e casa). Solo che lo scorso weekend a differenza del solito Eurostar, per andare in Inghilterra ho preso l'aereo, e ho volato con British Airlines: al ritorno sono arrivata con largo anticipo al leggendario Terminal 5 di Heathrow, e ho avuto tempo di girarmelo un po'. Per cui sono ancora in quella fase "come potrebbe sempre essere VS come è di solito in realtà", ma mo' mi passa. Che ve lo dico a fa': a parte il negozio ufficiale di Harry Potter (sono uscita di corsa per salvare lo stipendio), era tutto un fiorire di negozi d'alta moda e di numerosi ristoranti più o meno cari.
E alla fine, io so' una ragazza semplice. Altro che Dior e Prada, il vero lusso è poter aspettare il volo così:



Yakisoba 1 - "polpette" 0.



* Colta la citazione?

** C'è anche da dire che a Roma l'aeroporto che serve Ryanair (a parte qualche volo particolare) è anche quello più vicino a casa: ha senso quindi che io atterri lì, e quindi devolva il mio danaro agli amici irlandesi, a prescindere dal minor costo.
** Di nuovo, in realtà Charleroi non è poi così più distante da Namur di Zaventem. Ma i collegamenti non sono così frequenti, ecco.