Chi?

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Namur, Belgium
Gattofila, razionalmente disordinata, ossessivo-compulsiva part-time.

martedì 13 dicembre 2016

La dichiarazione d'amore più sincera che abbia mai scritto.


Scrivo di impulso, approfittando del fatto che la stanchezza e lo slancio dell'aver appena allineato queste parole nella mia mente stiano by-passando un po' di filtri ("oddio, ma sarà davvero il caso di scrivere questa cosa smielata e senza molto senso? Ma davvero? E se poi me ne pento?").

Il coro dell'università ha molti meriti, ma certamente è ben distante dal repertorio e dal livello a cui gli ultimi anni mi hanno abituata: in particolare, il ritmo scandito dall'apprendimento di nuovi brani è decisamente più rilassato. Tradotto: sono contenta di andare, ma mi annoio un po'. In caso di stanchezza, la noia assume una sfumatura di irritazione, ma d'altronde questo succedeva anche prima, quindi deve essere un mio tratto caratteristico.
E niente, oggi ero lì, un po' annoiata e con questa sfumatura, quando abbiamo cantato buona parte (tutta di fila!) di "Africa" dei Toto.
Vi lascio un mini video per darvi uno spunto su come immaginare lo scenario...




... che è solo uno spunto, perché chiaramente non c'è un asciugamano di un "allarmante tono di rosa" (cit.), non c'è purtroppo una vasca e in generale non proviamo in un bagno. Ma è una delle scene che mi è sempre rimasta impressa di Scrubs, mi piaceva l'idea di condividerla.

Quindi eravamo lì a cantare, io un po' annoiata, sinceramente chiedendomi se ne valesse la pena, quando
It's gonna take a lot to drag me away from you.
Già. Quando ho realizzato quanto profondamente fosse vero e quanto, nonostante tutto questo sentimento faccia parte di me ormai da qualche anno, sia ancora vivo e bruciante... lì, in mezzo ad una sala di sconosciuti e a qualche battuta un po' stonata mi è venuto da piangere. [Spoiler: no, non ho pianto]

Perché io lo amo. Perdutamente.
E se pensate che la domanda da porvi sia Chi?, siete fuori strada.

È un amore che è sbocciato talmente tanti anni fa (ventuno?) che non mi ricordo neanche il primo incontro: so che c'è stata un'insegnante, una persona che mi ripropongo da molto tempo di cercare di rintracciare perché, anche se inconsapevolmente, mi ha cambiato la vita. E credo sia giusto (e che le farebbe piacere) che lo sappia, che abbia la prova tangibile che almeno per una persona i suoi sforzi non sono stati vani, che il messaggio è passato ed ha attecchito.
Mi ha marchiata.
Nel corso degli anni è cambiata spesso la forma, ma il concetto è rimasto identico. Ho avuto la fortuna di aver incontrato persone carismatiche e piene di passione, che hanno saputo mantenere viva e alimentare quella piccola fiammella che sarebbe poi cresciuta fino ad ardere autonomamente.

È un amore che al liceo ha salvato un'adolescente un po' sgraziata e molto insicura, ammantata in una corazza di arroganza, dalla probabile solitudine, e che l'ha poco a poco trasformata: è diventata una persona sempre un po' arrogante, ma sicura di sé, con la schiena dritta e una nuova consapevolezza che da soli si può stare, ma le cose belle si costruiscono unendosi ad altri. E grazie a questo sono nate relazioni che vivono tuttora, quegli "amici di una vita" che ti sembra ci siano sempre stati.

È un amore che mi ha portata necessariamente ad assumermi responsabilità, a sviluppare capacità organizzative e (un po' meno efficientemente) intelligenza sociale: perché tanti devono diventare uno, ma non esiste la bacchetta magica che lo faccia al posto tuo, e allora bisogna ingegnarsi un po', bisogna evolvere. È una passione che mi ha reso una persona migliore, perché lavorando spesso per metafore è stato immediato capire come certi concetti potessero essere portati da una realtà di nicchia ad uno schema con cui vivere lo Stato Civile: il singolo ha dignità e importanza e il diritto di esprimere la propria individualità, ma sempre con in mente il beneficio per il Tutto.

È un amore che mi ha fatto soffrire, arrabbiare, innervosire, emozionare e piangere, di tristezza e di gioia; che ha preteso e pretende tempo ed energie e disciplina e concentrazione, ma che dà talmente tanto, soprattutto in alcuni magici momenti, da farti pensare ad un purissimo "Ne vale la pena".
È un amore che prevede spesso addii e arrivederci: alcuni fanno ancora male, c'è ancora quella spina nel cuore che quando il cuore si gonfia per l'emozione del ricordo TAC, è lì pronta sempre a pungere. Alcune mie relazioni sentimentali non sono arrivate a tanto.

È un amore che non capisco come possa non contagiare chiunque.

Perché tu sei lì, e sei tu, la persona che conosci, con la voce che conosci, con i limiti che conosci; intorno a te ci sono altre persone, ciascuna con una propria identità, alcune molto simili a te e altre completamente diverse, e non importa come e quanto tu le conosca; hai uno spartito in mano, a volte neanche quello; un attimo dopo sei parte di un'entità intensa e meravigliosa, che da sola non avresti mai potuto creare. Sei come un filo di seta colorato che sarà pure carino da solo, ma che una volta accostato sapientemente ad altri fili crea trame inaspettate e bellissime.

E la tua voce, quella che senti da tutta la vita, improvvisamente non è più quella, ma è arricchita da tante altre che con lei costruiscono o distruggono armonie, colori, intensità, emozioni.

Perché questo grande amore è tra me e il canto corale.

Le sue declinazioni possono essere infinite e vanno dalle poche pretese alla quasi perfezione, ma il corpo, la sua essenza, il suo valore sono sempre e comunque quelli.

E quindi mentre sono lì che canto Africa e penso ai mille modi in cui si potrebbe fare meglio e alla velocità a cui si potrebbe imparare e agli altri brani che si potrebbero studiare al suo posto, mi viene da piangere perché, nonostante tutto, io senza il coro non riesco a stare; perché, qualunque sia stato il periodo della mia vita, c'è sempre stato un coro a rappresentarlo; perché, guardandomi intorno, vedo persone diversissime tra loro e con mille background musicali e culturali che se ne infischiano delle loro mancanze e sono lì, a cantare; perché, davvero, It's gonna take a lot to drag me away from you.

venerdì 2 dicembre 2016

Come uccidere il Bianconiglio: parte 1 (la teoria).

Ho l'impressione che in Italia aleggi indisturbato il mito che nei Paesi “più a nord” siano sempre più bravi, parlino meglio inglese e le cose funzionino meglio.
Come ampiamente 
già raccontato, la parte sull'inglese non solo non corrisponde a verità, ma nel mio caso belga (francofono, ché dillà è tutta un'altra cosa) è esattamente il contrario. L'improvvisa realizzazione che la fantomatica diffusione dell'anglofono idioma era tutta una finta ha sgretolato quella cortina dorata e scintillante che per antonomasia ricopriva i Nordici e che nascondeva i fatti oggettivi, e infatti non ci è voluto molto per trovare altri esempi.
Parliamo dei treni.
Ogni volta che mi lamento con degli italiani dell'ennesimo ritardo del treno, mi sento sempre rispondere “che vuoi che sia, ma che non ti ricordi com'è la situazione in Italia/a Roma?”. Il punto però è che questo ritardo si inserisce in un contesto per cui il sistema ferroviario è una delle peggiori piaghe di questo Paese. Ma andiamo con ordine, ché sennò è facile pensare che io stia esagerando.
Tutto cominciò ormai un anno (!!!) fa, quando ad ottobre 2015 volai a Namur un lunedì per preparare la presentazione per il colloquio per la borsa di studio (il venerdì). La mia futura advisor (o promoteur, come si dice da queste parti) mi informa un paio di giorni prima del mio arrivo che sarà costretta a venirmi a prendere in aeroporto: è previsto uno sciopero dei treni e non esiste un collegamento alternativo che sia abbastanza umano. Vabbè, sfortuna.
Passano i mesi ma il viaggio è sempre quello. A Gennaio, arriva il giorno del trasferimento: presi armi e bagagli (non troppi, ché sempre 30 kg ho a disposizione), mi ritrovo di nuovo una mail, sempre dalla promoteur, che dice che è previsto un altro sciopero e che quindi, di nuovo, verrà a prendermi in macchina. Non che mi lamenti, spostare le valigie su e giù dai mezzi non è che mi attiri particolarmente: la coincidenza però comincia a farsi sospetta.
Gennaio, una settimana dopo: G. viene a trovarmi per la prima volta, quindi decido di “andarlo a prendere” (incontrarlo, cara, si dice “incontrarlo”) a Bruxelles, anche per acquisire un po' di confidenza con una tratta che ormai conosciamo a memoria ma che allora era una novità. Arrivo in stazione a Namur e scopro che il treno che fino a quindici minuti prima sul sito delle ferrovie era dato come perfettamente in orario, è stato cancellato.
Boom. Così. Cancellato.
(Mi sono sempre chiesta, qualora il sito avesse avuto ragione fino a 15 minuti prima, dove siano poi finiti quei poveri passeggeri di un treno che un attimo prima era in orario e un attimo dopo puf!, non c'era più).
Niente di grave, il treno successivo è in pochi minuti, arriverò giusta giusta ma arriverò. A Bruxelles, arriva G. e ci apprestiamo ad aspettare una ventina di minuti il primo treno per tornare indietro a Namur. Se non che… PUF!, il treno viene improvvisamente cancellato.
Boom. Così. Cancellato.
In quella fascia oraria (nove di sera) c'è un treno ogni mezzora, quindi magicamente ci ritroviamo a dover aspettare per ~ venti minuti + mezzora = quasi un'ora il treno che ci riporterà, finalmente, a casa.
A quel punto, l'inganno era stato scoperto, e l'idea di un sistema funzionante nel suo complesso a cominciato a mostrare crepe e zone d'ombra: da quel momento, ho contato sulla punta delle dita i treni che ho preso che sono partiti e/o arrivati in orario. Non si tratta sempre di ritardi esagerati (la maggior parte delle volte comunque non sotto ai dieci minuti), ma ciò che infastidisce è l'attitudine che l'azienda ferroviaria ha nei confronti di quelli che prima o poi vorrebbero essere passeggeri di un treno: annunci dei ritardi che arrivano quando non solo il treno dovrebbe essere già arrivato al binario, ma addirittura ripartito; scarsità di informazioni quando tu, ormai, su quel treno ci sei e non puoi farci niente, ma vorresti perlomeno sapere quale sarà il tuo destino; treni cancellati da un momento all'altro a cinque minuti dalla presunta partenza.
Ogni tanto mi sembra di essere diventata una sorta di Bianconiglio... con la differenza che probabilmente lui sarebbe già morto per un attacco cardiaco da stress.
C'è stata quella volta in cui uno sciopero previsto per dei giorni ben definiti è andato avanti ad oltranza, bloccando metà del Paese (la mia, chiaramente). O quella in cui il primo treno del giorno (il primo, Santo Cielo, il primo!) da Bruxelles ha cominciato ad accumulare ritardo da appena partito, per risultare poi in un viaggio della speranza durato il doppio del tempo normale e disseminato da adrenaliniche soste in mezzo al nulla cosmico con annunci del tipo “La locomotiva ha problemi, siamo fermi per cercare di farci qualcosa, ma non sappiamo fornire previsioni su quando ripartiremo”.
O ancora quella per cui ho aspettato il treno in ritardo di mezzora una stazione sfigatissima piena di spifferi, mentre fuori c'era una tempesta di neve: in quel caso però è stata un'ottima occasione per uno studio sociale sulle strane 
abitudini vestiarie degli autoctoni, e poi eravamo talmente tanti da scaldarci a furia di respirare (tipo il bue e l'asinello).
E questo è nulla, non vi ho ancora raccontato gli episodi veramente diverten imbarazzanti: quando il Bianconiglio ha cominciato a correre.

Arriveranno.

mercoledì 23 novembre 2016

Sinuosi parallelismi.


Scrivevo di come sia affascinante atterrare a Roma di notte, da Nord.
E poi non ho scritto più, ché già ero a Casa (e questo dovrebbe bastare come motivazione del non scrivere, essendo impegnata a godermi tutto e tutti), in più ero tornata per lavorare e quindi tempo passato a fare niente come scrivere non ce n'è stato. Ma poi sono tornata.

Tornare a Namur significa di solito atterrare all'aeroporto di Charleroi: da lì autobus e poi, stavolta, un'ora di attesa per il treno (i post sui treni arrivano, sono già mezzi scritti) che poi con i suoi buoni quaranta minuti arriva a destinazione. E su quel treno ha cominciato ad affacciarsi la sonnolenza, dovuta alle ore di sonno perse durante le due settimane (troppe persone da vedere, troppo poco tempo nonostante tutto), alla tensione da esaltazione costante dell'essere a casa che scemava, alla consapevolezza di essere alla fine di un viaggio che comincia ad essere routine: non mi sono addormentata, sono semplicemente andata un po' fuori fuoco, proprio come può succedere quando si fa un percorso a cui si è abituati e per cui ormai inseriamo il pilota automatico (anche su questi automatismi avrei un post, ma questo è solo in testa per ora). Non ero quindi attenta a dove fossimo e a quanto mancasse, avevo lo sguardo fisso fuori dal finestrino ma non guardavo davvero.



Charleroi e Namur sono collegate, oltre che da strade e dalla linea ferroviaria, anche da un fiume, la Sambre, che proprio a Namur va dolcemente a perdersi nella più grande Meuse.
La linea ferroviaria e il fiume dunque si accompagnano, allontanandosi solo per riavvicinarsi fino ad intersecarsi (per lo meno, visti dall'alto), scambiandosi i posti solo per ricominciare questa sorta di lenta danza: le acque quindi si intravedono spesso quando si è sul treno, e i tratti in cui le sponde sono illuminate sono spesso gli unici segni distinguibili nel buio della tarda sera.

Dicevamo che ero lì, fuori fuoco, persa a fissare ad occhi aperti il finestrino, alternando il percepire il paesaggio esterno (comunque buio e privo di punti di riferimento al di fuori dei centri abitati) a quello del riflesso dell'interno, senza vedere né l'uno né l'altro.
Fino a quando non mi sono ritrovata a seguire con lo sguardo il fiume, a seguire il susseguirsi di lampioni sulle rive il cui andamento... riconoscevo! Inconsciamente, devo aver registrato il percorso dell'acqua che precede l'entrare in città, e averlo riconosciuto come il preludio dell'arrivo. E infatti un minuto più tardi siamo passati vicino a quell'ansa che sì conosco bene, perché casa mia non si vede, ma è proprio lì dietro. A quel punto è comparsa la scritta sullo schermo del treno dell'imminente arrivo a Namur, ma ormai lo sapevo già.

Mi ha colpita la naturalezza con la quale prendiamo punti di riferimento senza accorgercene, mi ha colpita la delicatezza con cui il profilo del fiume è gradatamente passato dall'essere un elemento sfocato e impreciso sullo sfondo ad assumere contorni delineati e riconoscibili, che dolcemente hanno risvegliato la coscienza. Un po' come fa l'odore del caffé appena preparato amorevolmente da qualcuno mentre ancora dormiamo in una pigra domenica mattina.
E mi ha colpito il parallelismo che mi è balzato in mente tra l'Appia, che da Roma centro mi accompagnava sempre più freneticamente all'aeroporto, e la ben più placida Sambre.

Casa?

martedì 8 novembre 2016

Atterrare a Ciampino di notte da Nord.

Atterrare a Ciampino di notte da Nord è uno spettacolo bellissimo: se poi si hanno i posti dalla D alla F (per gli standard Ryanair, a destra del velivolo), sarebbe quasi giusto far pagare un biglietto.

Il La lo dà il serpentone illuminato del GRA, con le macchine che da lassù sembrano scorrere paciose ed armoniose, lungi dal lasciar trasparire il nervosismo e la stanchezza che forse accompagnano chi le guida; raccoglie il testimone lo Stadio Olimpico, che forse non sarà una bellezza artistica, ma fa sempre il suo bell'effetto.
Roma continua a scorrere a centinaia di piedi al di sotto, e seguendo con lo sguardo le strade principali, queste cominciano a convergere verso il centro.
Lontano, imponente, appare San Pietro; sembra davvero indifferente al resto della città, immerso eppur distaccato: visto da questa prospettiva così particolare, viene da pensare che gli architetti fecero un ottimo lavoro nel costruire il simbolo di una Chiesa immortale e stabile sulle proprie fondamenta (che poi sia davvero così, è un'altra storia).

Cominciano a susseguirsi sempre più velocemente altri luoghi simbolo: s'intuisce il Tevere, e poi Via Nazionale, improvvisamente la Stazione Termini, il Colosseo, Santa Maria Maggiore! Un climax di punti di riferimento per cui non si sa più dove guardare.
A quel punto di solito seguo lo snodarsi dell'Appia, mentre si scivola verso il basso sorvolando Roma Sud. Perché l'Appia? Per comodità, certo, perché è davvero facile da individuare e da non perdere; perché lungo l'Appia si evolve in modo evidente quella sorta di rallentamento della città verso la periferia; ma soprattutto perché l'Appia arriva fino all'aeroporto, e mi piace pensare sia una sorta di gentile accompagno di Roma, come una mano porta per sostenere gentilmente una lenta discesa lungo una scalinata.


Durante questa discesa si scorgono enormi macchie scure, quasi inquietanti nel mezzo di quella leggera ragnatele di luce: sono i Parchi, polmoni verdi di giorno e neri di notte. Nonostante l'oscurità, illuminati di luce riflessa da chissà quale sorgente, pallidamente si intravedono degli acquedotti romani. L'Appia è sempre meno distante, e anche il suolo si avvicina sempre di più.
Ieri, una novità: in mezzo ad una delle macchie scure, tante piccole lucine di un treno regionale che scorrevano lentamente in direzione contraria, verso il centro, scivolando sospese nel buio.

E poi di nuovo il GRA l'ippodromo le prime luci della pista la strada che costeggia l'aeroporto la pista vera e propria gli hangar gli aerei parcheggiati il contraccolpo una volta toccato l'asfalto la frenata un po' di sbandata.

Casa.


giovedì 3 novembre 2016

Le strane parole che imparo: v. 1.0.

Lo studio del francese prosegue: comprendere una conversazione non è più un'impresa dal sapore apocalittico, la comprensione scritta procede alla grande, la scrittura si è avviata. Sul parlato, siamo ancora a livello gibbone, ma è sufficiente per la sopravvivenza ed è profondamente influenzato da problemi psicologici miei che vabbé, che ve lo dico a fa'.

Al di là di quello che è il normale procedere dell'apprendimento dovuto al corso vero e proprio, lo sviluppo del vocabolario ogni tanto prende direzioni molto strane, come non manca mai di notare anche quella santa di E.A., mia compagna d'ufficio e prima maestra del francese "vero", quello che si parla al di fuori dei libri. Nel corso di questi mesi, la vita di tutti i giorni ha fatto sì che io imparassi parole strane ma utili(?) e/o interessanti(?!).
Innanzitutto, è fondamentale per ogni giovane donna essere umano che speri di diventare anche vecchio sapere cosa sono i féculents, ovvero i temutissimi carboidrati (la traduzione non è letterale, ma è il termine non troppo tecnico utilizzato di solito): le malelingue potrebbero dire che un loro eccesso è ciò che mi ha portata a richiedere che fossero sostituite le lattes du lit (doghe del letto), ma la verità è che erano già rotte quando mi sono trasferita (e per la cronaca, ancora sono rotte). Se lo sono, è perché qualcuno non sta facendo al meglio il proprio boulot: scoprire che è quasi un sinonimo di travail (lavoro) mi ha sorpresa molto, e se vi fosse stato anche un pizzico di ammirazione avrei potuto esclamare "la vache!" (si, è esattamente la mucca. Ma in fondo noi in situazioni simili non solo la tiriamo in ballo ma la insultiamo pure. Persino Spock, in Rotta verso la Terra, si lascia andare ad un umanissimo "Porca vacca!").

Sorprendente è stato inoltre scoprire tutto il cerimoniale di iniziazione dei bleus (le matricole)*: messa a parte di alcuni dei canti tipici associati all'occasione, ho imparato anche cos'è la guele (bocca, ma intesa di animale, e quindi un po' dispregiativa in caso sia utilizzata riferendosi a uomini), visto che 'sti poracci vanno in giro per le strade in posizioni strane a cantare
Bleu, bleu
Je suis bleu,
Je ferme ma guele
et ca ira mieux.
 (Matricola, matricola, sono una matricola, chiudo la boccaccia "che è meglio")
Di folklore si è parlato anche in occasione di Riri, Fifi, Loulou (leggi "Lulù"), che poi si sono scoperti essere i nostri Qui, Quo e Qua: lasciando perdere nazionalismi inutili, ma quanto è più simpatico dire "Qui, Quo e Qua"?

Parlavamo di cibo (succede spesso in questo ufficio) ed è saltato fuori che potrei sentir dire "J'ai des biscottos" (o biscoto, biscoteaux, biscotos, biscotteau, biscotteaux, sono ancora un po' confusi a riguardo) da qualche palestrato che si stia vantando dei suoi bicipiti.
Biscotto. Bicipiti.
Non me ne capacito (e non siamo riuscite a trovare un'etimologia certa).

Per finire, la più recente. Il processo maieutico è stato decisamente tortuoso (e forse è anche più interessante della parola in sé): rivendicazione del diritto a cominciare ad ascoltare carole di Natale --> addobbi natalizi in ufficio --> addobbi a casa --> otto dicembre --> Immacolata Concezione --> al poro Giuseppe non l'hanno raccontata giusta. E niente, alla fine ho scoperto che stérilet è la spirale (il dispositivo anticoncezionale). Non so bene cosa farci con quest'informazione al momento, ma il commento è stato "mi raccomando attenzione, o rischi di dare a qualcuno della spirale (stérilet) invece dello sterile (stérile)".
Al che sorge spontanea una domanda: sembro forse una dispensatrice di offese a tema riproduttivo?





* Sono mesi che mi dico che devo cominciare a scrivere i post relativi alle differenze tra i sistemi scolastici e universitari. Prima o poi lo farò, e la storia dei bleus ne merita uno a sé. Perché questi davvero non stanno proprio benissimo...

lunedì 17 ottobre 2016

La temperatura sperata, questo gran mistero.

I Belgi sono persone strane: sono sicura che chiedendoglielo, direbbero esattamente la stessa cosa di noi Italiani, e forse questo vale un po' per tutti. Ma i Belgi sono davvero strani.
Una cosa che salta immediatamente all'occhio, soprattutto durante i cambi di temperatura (perché “stagione” mi sembra un concetto piuttosto astratto da queste parti), è che i Belgi si vestono con un apparente, relativo, unico criterio: la temperatura sperata. Il concetto di temperatura sperata, a seconda dei casi, si sovrappone ad altre temperature: ci sono delle volte in cui quella sperata è quella che dovrebbe essere normale guardando il calendario (cioè quella prevista), altre volte è quella che ci si illude dovrebbe esserci, magari subito dopo un'anormale ondata di caldo in autunno (quella anormale ma buona).
Non sono mai stata una persona freddolosa, e ho anzi passato buona parte dei miei anni finora a rispondere a “ma non hai freddo?” provenienti dalle fonti più disparate. Però non è che per questo voglio morire ibernata, quindi quando le condizioni climatiche lo richiedono mi vesto di conseguenza (mediamente, ecco, ricordiamoci sempre che non sono evidentemente capace di azzeccare la temperatura giornaliera).
Loro no. Ora (beh, ormai da un paio di settimane) che è arrivato l'autunno, mi sono arresa al cappotto. Con tanto di strati intermedi e di sciarpa, a volte. E invece no, loro* belli e paciosi ancora vanno in giro con la maglietta a mezze maniche e spesso con i pantaloncini corti. Questo perché settembre è stato particolarmente caldo per gli standard nazionali, ed evidentemente non sembrandogli vero hanno deciso di aggrapparsi a questa inaspettata ventata di buon tempo con i denti e con le unghie. Anche dei piedi, a giudicare dal fatto che alcuni portano ancora i sandali.
Per dire, qualche giorno fa mi sono sentita dire: "Oggi sarebbe stato il caso di mettere gli stivali, ma sai, una volta che cominci con gli stivali non te li togli più perché sono belli caldi, e allora voglio aspettare ancora un po'". Come, scusa?

L'esempio più clamoroso però risale a qualche mese fa.
Non me lo scorderò mai: io e A., che vive a Lussemburgo, decidiamo di incontrarci ad una confortevole metà strada, il che vuol dire nei dintorni di Bastogne, che nella mia ignoranza non avevo collegato alla battaglia delle Ardenne. Ha nevicato tutto il giorno, ma seriamente. A metà pomeriggio siamo state sorprese da una bufera di neve talmente forte da riuscire a camminare a stento, con tanto di ombrello per ripararci.
Era il 24 aprile.**
Di ritorno verso casa, aspetto in stazione il mio treno (che, indovinate un po'? Era in ritardo di mezzora... prima o poi ve lo scrivo un post dedicato solo ai treni di questo Paese) addobbata con piumino, sciarpa, berretto, guanti, e stando ben attenta a non disperdere calore. Sono circondata da studenti che tornano a Namur per la settimana (è domenica sera), e molte delle ragazze sono spavaldamente vestite con giacchettina e ballerine...

...

BALLERINE?! In mezzo alla neve, solo se hai una pinna caudale al posto dei piedi. E comunque no, che ti si sciolgono. Ma immagino che il fatto che il calendario segnasse il 24 aprile fosse ragione sufficiente per ignorare i gradi celsius negativi che il simpatico tempo belga aveva deciso di proporci.

Non è la prima volta che guardandomi intorno non solo quella vestita più leggermente: succedeva di continuo al centro, a Londra. Ma lì era principalmente per una questione di ...stile?…, per cui le ragazze col vestitino e i sandali tremavano dal freddo ma non avrebbero mai rinunciato a mostrare quei centimetri di pelle in più. Era una scelta ben precisa, e assolutamente consapevole di essere fuori da qualunque schema climatico.
Invece ora, guardandomi in giro, mi viene in mente solo una cosa… Ma non hanno freddo?



* La maggior parte di loro, c'è anche gente normale...

** Tra l'altro, era il weekend della Liegi-Bastogne-Liegi. Poracci.

giovedì 6 ottobre 2016

Brussels at war.

Ieri ero impegnata nelle mie letture quando ad un tratto mi sono scorse sotto agli occhi queste parole:

"However after he had walked about for an hour or two he came to the conclusion that the fault was not in him, but in Brussels itself. He knew what a city at war looked like, and this was not it. There ought to have been companies of soldiers passing up and down, carts with supplies, anxious-looking faces. Instead he saw fashionable-looking shops and ladies lounging in smart carriages. True, there were groups of officers everywhere, but none of them appeared to have any idea of pursuing military business [...]. There was a great deal more laughter and gaiety than seemed quite consistent with an imminent invasion by Napoleon Buonaparte."
"Jonathan Strange & Mr Norrell", Susanna Clarke

Da quando sono in Belgio mi sento chiedere spesso com'è la situazione, a causa dell'allerta generale terrorismo e degli attacchi, paventati o purtroppo davvero accaduti che siano. Io non sono mai stata a Bruxelles durante uno dei momenti critici, per fortuna, quindi non posso dire come reagisce la città nell'immediato. Ma ci passo relativamente spesso, quasi sempre in punti nevralgici, e questa descrizione centra in pieno il punto di una giornata qualunque.

Vorrei davvero sentire l'odore del nervosismo da guerra? Ovviamente no.
La sua assenza però è quasi surreale.

mercoledì 21 settembre 2016

Prendi un incontro in treno...

Domenica notte, interno treno.
È la penultima corsa per Namur del giorno, presa al volo causa ritardo dell'Eurostar: mi siedo, compilo il biglietto, mi sistemo il più comodamente possibile. Più per combattere la stanchezza e mantenere il cervello vagamente impegnato che per reale interesse, comincio a saltare da un sito all'altro con lo smartphone, fino a fermarmi su un blog di una tizia che parla di cura e acconciature di capelli ricci (alto tasso di cultura, mi rendo conto). Distrattamente scorro la pagina, e si susseguono una serie di immagini di trecce, colori, tagl"AENGMGPHAGNAFLPEPAVPOMAV W2QYTEICVNSMCLSOVFN!"

Giuro, è quello che il mio cervello ha recepito. Risvegliata da una sorta di assopita trance, metto a fuoco il mondo intorno a me e capisco che chi mi sta parlando è il tizio seduto ai posti accanto ai miei dall'altra parte del corridoio. L'apparente Klingon è dato dal fatto che ancora non destreggio l'ascolto periferico del francese, intendendo che capisco molto di quello che viene detto ma solo se mi concentro su chi sta parlando, mentre conversazioni captate per caso e di sfuggita sono ancora difficili da decifrare passivamente.
Una volta capito che la situazione richiede la mia attenzione, diventa tutto più... comprensibile.

"Scusa, mi dispiace ma stavo sbirciando sul tuo cellulare. Non tagliarti i capelli, che sono bellissimi così!"
"... mmm no, non li voglio tagliare."
"Ah, bene, bene. Perché davvero, tienili così. Al massimo puoi fare qualcosa al colore, ma tienili così!"
"... ok..."
"Bene, mi raccomando eh!"

Mentre cerco di capire se dovrei sentirmi imbarazzata, lusingata o preoccupata, comincio a pensare che magari fa il parrucchiere e si è sentito chiamato in causa. Un po' come quando sento gente dire cose fuori dal mondo riguardo alla matematica e mi devo mordere la lingua per non intervenire beceramente.*

Poi il tizio ha iniz ricominciato a bere, e tutto è tornato ad essere normale. Più o meno.




* Una volta, mentre studiavo in un'aula dell'università, un gruppo di tre studenti di biologia (almeno mi auguro del primo anno) intento a risolvere un esercizio, imputò il diverso risultato ottenuto al fatto che avessero invertito l'ordine dei fattori in una moltiplicazione: "Mica è uguale!".
Il mio autocontrollo per non saltare sul banco e urlare alla blasfemia fu messo ulteriormente a dura prova quando aggiunsero che "Dobbiamo aver fatto un errore, perché 0.4^6 diventa sicuramente grandissimo!".

venerdì 16 settembre 2016

British mon amour!

[In diretta da sotto la Manica: che emozione!]

Poco fa ero nella lounge d'attesa dell'Eurostar, aspettando che iniziassero le operazioni di imbarco. L'ultima volta che sono andata in Inghilterra è stato a Maggio, quindi sono stata un po' “colta di sorpresa” quando tutto ad un tratto mi sono ritrovata immersa in una delle lingue più belle del mondo (IMHO, of course): il British. Così musicale, così posh, così comprensibile!
Proprio poco tempo fa, parlando di accenti, ricordavo come alla fine del mio periodo londinese non solo il mio inglese era al suo punto di massimo splendore, ma da una pronuncia corretta ma senza accento aveva virato con forza verso il British, inconsapevolmente. Che gioia, una volta che me ne sono accorta!
Il tutto perso in poco tempo, ovviamente. E con quello anche molto vocabolario, che in caso di necessità e con sforzo inaudito può essere recuperato, ma mancando completamente di quella fluidità inconsapevole (e due) tipica di una buona conoscenza della lingua.
È inevitabile, quando non ci si esercita con una certa costanza: non solo, è anche importante avere la possibilità di parlare con qualcuno che parli la lingua fluentemente, magari madrelingua. Perché se è vero che parlo inglese ogni giorno da quando mi sono trasferita in Belgio, è anche vero che nella vita di tutti i giorni la lingua è un mezzo, non è uno scopo. E se è un mezzo, sarebbe inutile ricercare nella propria mente e nei propri muscoli facciali la memoria di quell'accento, se poi questo non viene compreso, richiedendo una ripetizione della frase con una pronuncia più mainstream. E se è un mezzo, sarebbe inutile utilizzare verbi meno comuni ma più corretti, se poi bisogna spiegarsi di nuovo, magari usando un polivalente “to do”.
Queste riflessioni sulla lontananza dall'inglese che fu mi portano a pensare al francese che sarà: è ancora presto, ovviamente, davvero troppo presto per saperlo, ma ho come la sensazione che non mi si adatterà come un guanto tanto quanto fece l'inglese.
Soprattutto, non riesco ad immaginare la versione di me francofona.
Sono assolutamente convinta che l'immagine di noi che il mondo percepisce cambi leggermente a seconda della lingua che parliamo, posto che questa sia parlata correttamente e senza accetto nazionale. Così come ad esempio la postura, l'abbigliamento e il trucco, la lingua è uno “strato” di cui ci ricopriamo e che determina sfumature che saranno uno dei tanti dettagli che costituiscono il quadro generale. Sto imparando il francese, e l'obiettivo è impararlo per bene: perché mi serve per vivere, perché sarebbe stupido non farlo avendo la possibilità di viverci immersa, perché è una sfida. Lo sto imparando, ma non sono sicura mi starà bene. Come quando si compra un paio di scarpe online.

Ad un certo punto ho pensato stupidamente che non voglio perdere la versione anglofona, che è un po' come pensare che non voglio perdere i jeans dal momento che oggi indosso degli altri pantaloni: i jeans non andranno da nessuna parte ma aspetteranno pazientemente nell'armadio, al massimo saranno nella sacca dei vestiti da lavare. Ci saranno periodi in cui li indosserò di più, altri in cui mi li vorrò meno, ma loro, da soli, non si sposteranno di un centimetro da dove li ho lasciati.*


Quindi oggi ho capito che imparare nuove lingue è come fare shopping: chissà che questa nuova visione non funzioni da incentivo...




* Ironicamente, i jeans sono sempre jeans, che sia italiano, inglese o francese.
E anche lo shopping.

giovedì 8 settembre 2016

Il segreto per la relazione a distanza perfetta.

La data di oggi, oltre che per quel dettagliuccio dell'armistizio del '43, rientra nei miei annali perché segna l'inizio della fase a distanza con G. Cioè, capiamoci, non è che prima ci si vedesse molto: tra due mesi filati negli Stati Uniti e viaggi vari in Inghilterra, non è che stesse a casa molto spesso comunque. Però da due anni la lontananza è ufficiale, con buona pace (...) per tutti.
Due anni.
Due anni e siamo ancora qui, cioè lì, cioè un po' qui e un po' lì, però insomma, c'è ancora un siamo, ecco.

Volete sapere il segreto per la relazione a distanza perfetta?

(Suspence)


(Rullo di tamburi)


Non esiste. Non esiste e mi sembra anche logico che sia così: ciascuno di noi è un'entità a parte, diversa da chiunque altro, che si relaziona con un'altra entità, anch'essa diversa da chiunque altro. E ogni entità quando è in coppia si relaziona in maniera diversa, sia dagli altri che da se stessa, perché ha a che fare con qualcun altro. Ogni coppia è un caso a sé stante, le dinamiche sono uniche ed è bello che sia così. È poi anche il motivo per cui secondo me bisogna essere sempre molto cauti nel dare consigli riguardo alle questioni di coppia, perché quel che può valere per me può essere deleterio per qualcuno altro. Ci sono certamente atteggiamenti che fanno più bene che male, ma sono talmente generici e iper citati da essere diventati dei cliché (Comunicazione! Fiducia! Tempo di qualità!).
Quindi mi spiace, non c'è una formula magica o un ricettario per far funzionare le cose in una relazione a distanza, ché se ci fosse ci scriverei un libro e guadagnerei una montagna di soldi e non la spargerei di certo al mondo così, gratis!


"Ma se non c'è un super segreto e non vuoi dare consigli, perché hai intitolato così il post?"
Per farvi cliccare sul link, per cos'altro sennò?!


Tutta questa premessa è oltremodo doverosa per sottolineare quanto tutto ciò che si può dire riguardo alle relazioni a distanza sia totalmente, inevitabilmente e fortunatamente relativo: l'esperienza di due persone è unica, così come sono uniche le persone che gli stanno attorno e le dinamiche che intercorrono tra queste. Lungi da me asserire allora che ciò che scrivo sia applicabile a chiunque, che chiunque la pensi allo stesso modo (chissà, magari una cosa che a me dà sui nervi ad altri può essere gradita) e soprattutto che dobbiate essere d'accordo. Anche perché come diceva Socrate, Io so di non sape"Si vabbé, ok, chiaro. Ma di che stiamo parlando?! Giungi ad un punto, diamine!"

Parliamo di come trattare l'Homo distantiarelationanticus. [ci stavo arrivando, comunque...]


L'homo distantiarelationanticus (d'ora in poi, HD) è una specie che si è evoluta soprattutto in era moderna, e si caratterizza per la sua testardaggine nel mantenere una relazione sentimentale con un altro esemplare della stessa specie ubicato ad una certa distanza (o perlomeno, l'homo è convinto che l'altro sia della stessa specie; a volte capita non lo sia ma allora poi si creano casini ed è tutta un'altra storia). Questa distanza è tale per cui non è possibile conciliare l'incontrarsi frequentemente con la propria quotidianità, soprattutto per quel piccolo problema che le ore sono sempre 24 in un giorno. Ah, e che i trasporti costano un accidente.
A causa di questa sua condizione, l'HD è solitamente circondato nel suo ambiente naturale da esemplari di Homo normorelationanticus (quelli che si relazionano con altri normalmente, qualunque cosa questo significhi) e di Homo nonrelationanticus (i single): pur appartenendo a specie diverse, tutte queste entità convivono tranquillamente in uno stesso spazio interagendo tra loro. Interagisci di qua, interagisci di là, è facile stilare una raccolta delle situazioni più tipiche che capitano all'HD. O meglio, quelle che più tipicamente sono capitate a me (ricordate che tutto è relativo e personale?).

"Sai, io e lui/lei siamo molto impegnati, non ci vediamo da due giorni."
"Cioè no sai, riusciamo a vederci tranquillamente tutta la settimana, ma non possiamo dormire insieme. E dormire insieme è importante, è un momento così intimo!"
[n.d.a. parlo proprio del dormire quale attività in cui si chiudono gli occhi e si entra in fase R.E.M.]
Ecco. Allora. Qui serve una piccola premessa: un grosso rischio di quando si è in una situazione "difficile" è quello di considerare irrilevante e sciocco qualunque altra situazione la cui difficoltà, secondo un qualche criterio non meglio specificato, sia inferiore. Questo è sbagliato, perché non è giusto minimizzare i problemi degli altri per il semplice fatto che li consideriamo "meno problematici" dei nostri: la vita non è una gara a chi sta peggio ed è sempre bene esserci per qualcuno che ha bisogno di una parola, di un consiglio, o anche solo di sfogarsi. [Fine premessa]
Però. Però un po' di sensibilità dovrebbe stare anche dall'altra parte, nel capire la condizione di distantiarelationanticus della persona con cui ci si sfoga e nel pensare due volte se sia il caso di proporre la questione.
Non vi vedete da due giorni? Eh, temo proprio che la vostra relazione sia compromessa da una così lunga separazione.
Non potete dormire insieme per una settimana? A parte che è probabile che l'homo sia ancora più sensibile al concetto del dormire nello stesso letto quale occasione in cui si mantiene un legame, ma non mi lamenterei, considerando la frequenza con cui potete... che ne so, incontrarvi, abbracciarvi, guardarvi negli occhi. Perché via Skype (o simili) non ci si può guardare negli occhi: lo si potrebbe logicamente dedurre immediatamente, però la prima volta che si realizza ci si resta davvero un po' male. Quindi ecco, magari se riuscite a vedervi per tutta la settimana, forse è una cosa di cui potete evitare di lamentarvi con un HD.

"Eh, ma per voi è facile. Ai miei tempi non c'era [inserire nome di tecnologia]"
Questa è, ovviamente, la preferita delle precedenti generazioni. "Ai miei tempi c'era solo il telefono, o la lettera". Bene, sono contentissima che ce l'abbiate fatta lo stesso, davvero (anche io, in fondo, sono il risultato di uno di questi successi).
Ma cosa ci dovrei fare io con una frase del genere?
È di consolazione? Beh, si, ma ci sono tante altre cose che rendono la mia vita migliore rispetto a 50, 60, 70 anni fa. La sicurezza dell'acqua corrente in casa e il frigorifero, per esempio. Capisco però l'intento lodevole e non mi sento di recriminare poi troppo, ma insomma, non è che sappia farci granché, con questa frase.
Vuole minimizzare le difficoltà? La premessa del punto precedente vale in entrambi i sensi.

"Ogni quanto vi vedete? Due settimane? Ma siete fortunati!"
Così come non si dovrebbe mai minimizzare situazioni che appaiono meno "gravi" della propria, non bisogna mai scordarsi del fatto che esistono persone che ne vivono di ben più intense: penso a chi vive si a distanza, ma a decine di migliaia di chilometri, o magari in continenti diversi. Ci si vede poche volte all'anno, si spende un patrimonio e si combatte ogni giorno con una differenza di fuso orario notevole (abbiamo passato anche quella fase, ed è estremamente più difficile).
Quindi si, siamo fortunati nel poterci vedere in media ogni due settimane, e ci prendiamo cura di questa possibilità al massimo delle nostre capacità.
Ma (era ovvio ci fosse un ma).
Innanzitutto, abbiamo trascorso un anno in cui, se andava bene, ci si vedeva una volta al mese: quindi è molto bello che ora la frequenza sia ragguardevole, ma non è sempre stato così. In secondo luogo, niente è gratis: è un investimento di soldi, di tempo e di energie, che si affronta con la giuoia nel cuore (volutamente scritto giuoia) e un bel sorriso stampato in faccia, ma è comunque un investimento. Soprattutto quando sai che da casa a casa ci vogliono sette ore e mezza, se va bene, quando i costi ti permettono di evitare di viaggiare di notte per 15 ore. Tutto questo per un weekend, s'intende. Quindi si, chiaramente ci sono delle condizioni favorevoli, ma non userei esattamente il termine "fortunati".

"Io non potrei mai fare una cosa del genere, è impossibile."
Questo è un punto delicato. Succedeva particolarmente all'inizio, quando la situazione era nuova sia per noi che per le persone intorno a noi. Ora, non voglio addentrarmi troppo nei dettagli e in profondità su quelle che erano le mie condizioni psicologiche a quei tempi, però credo che una metafora sarà efficace.
Immaginate di essere alla base di una montagna mai esplorata, pronti per iniziare la scalata; non avete mai scalato una montagna in vita vostra, ma vi tocca e vi siete preparati al meglio di come avete potuto: avete ascoltato storie di altri che l'hanno fatto (anche se non proprio su quella montagna), avete sistemato tutto l'equipaggiamento che ritenevate necessario (sperando sia sufficiente), vi siete preparati psicologicamente ad affrontare e superare tutto, ma anche al peggio. Proprio quel giorno è nuvoloso, quindi già a pochi metri di altezza la visibilità è scarsa, non si vede il percorso, non si vede la cima: potrebbe esserci una tormenta di neve o un sole splendente, non lo potete sapere. Decisi a non farvi scoraggiare, vi apprestate a percorrere il cammino e salutate le persone che sono venute a darvi supporto: vi girate e li vedete guardare verso quella punta che non si vede, preoccupati come se toccasse a loro. Guardandovi increduli e spaventati vi dicono "io non potrei mai, è un'impresa impossibile". Non molto incoraggiante, eh?
Le prime volte uno accusa il colpo, poi si forma il callo e dopo un po' non ci si pensa più. Anche perché, come parrebbe, non è proprio così impossibile.
Doveste incontrare un altro HD, magari evitate di essere così drastici, anche perché non sapete necessariamente quali sono le condizioni psicologiche della persona che avreste di fronte: potreste trovarvi nel mezzo di un crollo emotivo e non è mai una cosa simpatica, ecco. Sbandierare l'impossibilità non fa bene, d'altronde neanche cercare di convincere che sarà una passeggiata con i minipony è salutare (e poi è poco credibile), quindi trovate una via di mezzo. Una volta A. mi disse: "è difficile, ma se dovessi scommettere su qualcuno, lo farei su voi due". Mi piacque molto.


Per onestà intellettuale, è giusto precisare che tutte queste frasi o situazioni vanno inserite in un contesto di persone che ci hanno supportato e continuano a supportarci (e magari anche sopportarci), che credono davvero che possiamo affrontare il tutto (perché l'avventura è appena cominciata, mica finirà a breve!). Lungi da me scrivere che siamo soli contro il resto del mondo. E poi basta, ché ho appena cancellato dieci righe di melassa (e non per G.).

PS: Nessun G. è stato maltrattato per la scrittura di questo post. E neanche durante gli anni precedenti (chissà se concorda...).




* Amici, parenti e conoscenti: qualora vi riconosceste in una di tali situazioni... beh, si, è possibile che siate voi. Ché qui mica si parla di aria fritta. Lasciate che vi consoli qualora vi sentiate punti sul vivo dicendovi che: non siete stati gli unici; (quasi) niente di tutto questo è davvero importante, si fa per (far) ridere, spero; non è grave, visto che siamo ancora amici, parenti e... vabbé, conoscenti.

lunedì 5 settembre 2016

"Come si dichiara?" Consapevole, Vostro Onore.

Quest'estate ho compiuto ventisette anni. Ventisette.
Mi piace il numero ventisette, ci sono un sacco di 3 (uno dei miei numeri preferiti): è 3*3*3, ne mancano 3 per arrivare a 30, trentatrè trent.

Mi sento più adulta? Mmm naaaaaaa, non direi.
Sento di aver raggiunto comunque una ragguardevole età? Eh, di questo si può parlare. È indubbio che cominci a notare che il passare del tempo ha avuto certi effetti su mente e spirito: lungi da me dire che sono diventata vecchia (pur non nutrendo alcun timore verso il naturale avanzamento dell'età), ma mi rendo conto che alcune cose sono cambiate. Non mi stupirei affatto se cambiassero nuovamente da qui a due, tre o cinque anni, ma per il momento la situazione è questa ed è bene (per me, non so per altri) che io ne prenda serenamente atto.

Give me baby one more list!
Mi sembra coerente iniziare una lista sottolineando come abbia imparato che il mio cervello organizza le cose per liste. Ah, l'onnipotenza di sapere di star pianificando qualcosa mentre appare un nuovo pallino per un nuovo oggetto sulla lista! Ah, la soddisfazione di sbarrare qualcosa portato a termine!
Oltre alla classica ma mai fuori moda lista della spesa, ne compilo per innumerevoli scopi: obiettivi per la giornata lavorativa, obiettivi a lungo termine, cose da fare appena tornata a casa prima che possa rilassarmi (perché conoscendomi, una volta premuto il pulsante relax è finita la giornata), film che voglio vedere, idee per regali futuri. In qualche particolare caso per preparare la valigia, anche se ormai mi sposto talmente spesso che la maggior parte delle volte la preparo in automatico, al punto che sembra si faccia da sola: specialmente per i weekend in Inghilterra, ormai la valigia è standard. Persino i miei post sono spesso organizzati per punti: da un lato è più facile scrivere piccoli tasselli che non devono necessariamente essere collegati da perifrasi, trovando perfetta motivazione nell'esser gli uni accanto agli altri per il semplice fatto di far parte di una lista; dall'altro, li penso spesso direttamente così, e trasporre la struttura con cui vengono ideati mi sembra più autentico.

Sette e mezzo.
Non ho preso il vizio del gioco d'azzardo: semplicemente sono arrivata al punto di sapere che il mio corpo e la mia mente hanno bisogno di sette ore e mezzo (minimo) di sonno a notte. Addio anni di gioventù, in cui studio, vita sociale e impegni del quotidiano demandavano svariate ore notturne e le successive ore mattutine: con quali leggiadria e spensieratezza (dopo il caffé) affrontavo una giornata intera e impegnativa con poche ore di sonno alle spalle. Quando capita ultimamente tengo botta per un po', ma pur mantenendo (a fatica) le apparenze di una persona vigile e produttiva, dentro di me so con quale sforzo sto tenendo gli occhi aperti.
Ad onor del vero, ammetterò che il costante calo di attività fisica da me svolta può aver contribuito enormemente, sia per la mancanza di stamina sia per una minor qualità del sonno, che nel caso di poche ore disponibili è fondamentale.

Se bella vuoi apparire, un poco devi soffr ma anche no.
Si arriva ad un certo punto in cui la manutenzione di un fisico quantomeno non dolorante diventa prioritaria rispetto a tutta una serie di obiettivi estetici che perseguivo senza problemi da giovane ventenne. L'Esempio con la E maiuscola riguarda l'asciugatura dei capelli: da portatrice sana di chioma riccia, so bene che la teoria richiederebbe asciugatura "all'aria" o eventualmente un phon (col diffusore! Mi raccomando il diffusore!) a temperatura medio-bassa. Ora, una temperatura medio-bassa comporta necessariamente tempi di asciugatura etern più lunghi, col risultato che spesso, anche in inverno, la mia innata pigrizia mi portava a non asciugarli proprio bene bene bene. E, in ogni caso, durante il processo si sta con i capelli umidi per un bel po'.
"La cervicale!", sbraitava Madre mentre mi tastava i capelli sull'uscio di casa.
"La cervicale!", ad un certo punto ho cominciato ad urlarmi addosso da sola mentre il mio collo aveva la stessa capacità motoria di un container. Avete mai visto un container muoversi da solo? Ecco.
Va da sé che ora qualunque "regola" estetica (dall'asciugatura dei capelli al vestiario) viene applicata solo se passa rigorosamente il test: "Se lo faccio/lo (non) indosso, avrò gli acciacchi da vecchia?".
Mestizia.

Mi conosco, mascherina!
Arrivata alla veneranda età di ventisette anni, posso dire di avere un'ampia conoscenza di ciò che funziona e ciò che no.
Voglio essere sicura di alzarmi presto senza avere una ragione impellente a parte l'essere più produttiva? Devo lasciare la sveglia lontana dal letto per costringermi ad alzarmi, pena il rinvio della sveglia per un'ora o più.
Giornate calde e afose senza zuccheri a intervalli regolari? Se non voglio trovarmi stesa incosciente per terra, evito.
Non voglio cadere in tentazione con dolci, birre e patatine? Non devo averli in casa.
Voglio andare a letto ad un orario decente? Non devo sdraiarmi col computer perché "tanto solo cinque minuti". Ammetto la sconfitta su questo punto, ci casco ancora come una pera cotta maledicendomi in aramaico antico la mattina dopo (vedi il punto "Sette e mezzo").
E così via.

Aldilà di quelle che sono le inezie della vita quotidiana, immagino che la visione più generale sia che arrivata ai 27 io abbia acquisito consapevolezza. Che non è saggezza, beninteso. È più semplicemente l'accumulo di esperienza e l'aver trascorso tutta la vita con... beh, me: si arriva ad essere consapevoli dei propri pregi e dei propri difetti, delle proprie cose buone e di quelle meno, ma soprattutto (ed è qui secondo me la cosa importante) si impara ad accettarli.
Accettazione non vuol dire arrendevolezza: vuol dire conoscere la propria situazione attuale non negando l'evidenza, avendo ben chiaro cosa sarebbe bene cambiare e cosa no, cosa ci si può permettere e cosa no. Questo vale ovviamente non solo per il rapporto con se stessi, ma anche con il mondo esterno: in particolare ora sono consapevole del fatto che non si può piacere a tutti (oh, regà, amen!) e che bisogna saper dire di no, a volte. Non avendo proprio un carattere delicato e arrendevole, il primo punto mi era chiaro da un pezzo, anche se non l'avevo accettato completamente; sul secondo ci stiamo ancora lavorando (io e le mie molteplici proiezioni mentali), soprattutto se giustificare il no richiede una critica nei confronti del richiedente.
Questi mesi un po' solitari in Belgio sono stati una tappa importante per raggiungere questa consapevolezza: non solo perché il vivere (di nuovo?) da sola richiede ovviamente una gestione diversa di sé e del proprio tempo, ma anche perché il diverso ritmo della vita sociale lascia molto spazio alla riflessione e al tirare le somme.

"Vabbé, consapevolezza qua, consapevolezza là, mo che ce fai?"
Eh, intanto me la tengo. Poi forse coi trenta m'arriva l'illuminazione.

giovedì 18 agosto 2016

Blateramenti scollegati.

Va' se non è passato un po' di tempo dall'ultima volta che ho pubblicato qualcosa!
Che dire, ho passato tre settimane in Italia, da lì mi era difficile trovare spunti per raccontare di come vanno le cose invece... qui. E d'altronde avevo da godermi un po' di tempo a Casa, per cui ho messo un po' in pausa le dita ed evitato di scrivere anche di pensieri parole opere e omissioni.

Però ora che sono tornata a Namur, e ora che il Belgio dopo due giorni di sole splendente si è ricordato di essere il Belgio ed è tornato nuvolo, mi rimetto volentieri seduta alla scrivania a blaterare qualcosa. Di un po' di cose sparse e scollegate, a dir la verità, ma 'sti giorni o questo o niente.

L'imbarazzo facile.
È sempre bello tornare a casa. Sempre. Ho scoperto però che si è generata una cosa che mi provoca forte imbarazzo e grande piacere, lasciandomi un po' intontita nel cercare di capire cosa prevale e nel contempo dare una risposta che non sia un blateramento senza senso; la frase tipo è "leggo il tuo blog, mi piace come scrivi!".
"Oh, te la stai a tirà!". No, è che mi spiace non riuscire mai a rispondere mostrando quanto apprezzi questo genere di commenti: io scrivo principalmente per me, poi con un intento informativo, infine per mantenere un po' allenata la capacità di scrittura. Ma il fatto che addirittura ad alcuni (solo ad alcuni, eh!, per carità) piaccia un po' mi spiazza. Un po' perché quando mi rileggo vorrei averlo riscritto cento volte meglio, ma già pubblico a singhiozzo così, figuriamoci se mi formalizzassi; un po' perché non so mai come reagire, visto che qualche tempo fa ho deciso che schernirsi in risposta ad un complimento è un comportamento becero per infinite ragioni, ma è anche l'unica cosa che di solito riesco a fare. E quindi infiniti momenti di enpasse.
[Comunque grazie. Mi trasformo in un mollusco semovente incapace di parlare ma apprezzo sempre quando succede.]

Quei profili da seguire vedere.
Instagram mi piace moltissimo: l'espressione tramite immagini mi ha sempre attirata, fin da piccola. Il fatto che la mia memoria lavori spesso (e forse anche meglio) per immagini fa sì che mi incuriosiscano molto le storie delle persone raccontate attraverso delle fotografie.
Chi seguo mediamente? Amici, blogger, qualche personaggio un po' più noto. Ma quelli che mi piacciono da matti e di cui ammiro tantissimo la coerenza, sono i profili tematici. In particolare tre sono bellissimi, e mi sembra proprio un peccato non lasciarveli come spunto:
  • Girls and their Cats: non è difficile che anche solo dopo qualche secondo di conoscenza, si sappia che ho un po' di... problemi, coi gatti. Più volte, indipendentemente dal tipo di interlocutore, ho interrotto conversazioni al grido(lino) di "Ommioddiomachebelmicino!Maquantoseibellomaquantoseipelosoeciuciuciuciaciacia". Le persone che mi vogliono davvero bene si riconoscono perché sanno del problema ma mi accettano lo stesso: non si stupiscono più di avere di fronte una persona con una dignità e una compostezza e un attimo dopo un ammasso disciolto di umano il cui unico scopo è quello di catturare anche solo uno sguardo dell'appena apparso felino.
    Girls and their Cats racconta storie di donne e dei loro amici mici, di come si sono incontrati e di come è evoluto il loro rapporto, accompagnate ovviamente da foto che in un singolo scatto colgono il carattere della Lei di turno e di quel bellissimissimoconcentratodifelinitàchehadellebellissimezamponepelose. AHEM.
    È interessante leggere come ogni "coppia" sia diversa dall'altra, di come gli approcci (umani e felini) siano diversi ma come l'amore e il legame che traspaiono siano sempre gli stessi. Fusa a go go. 
  • What Fran Wore: chi mi conosce un po' più approfonditamente sa che ho amori viscerali e spesso insensati per alcune cose random, tra cui il cocomero, alcuni programmi che continuo a guardare pensando e dicendo "è tutto finto", "Santo Cielo", "che squallore", i gatti (ma di gatti abbiamo già parlato). Uno di questi amori è sempre stato La Tata. Neanche la delusione (prevedibile, usando un po' di zucca. A mia discolpa, è successo molti anni fa) di scoprire che nell'originale Tata Francesca non era di Frosinone ma bensì ebrea ha scalfito la passione. Prendiamo questo sentimento ed uniamolo ad un più (molto) moderato interesse per la moda e capiamo perché What Fran Wore è diventato uno dei miei profili preferiti. Vedere per capire.
    E se non capite non so se possiamo essere amici.
  • Smiling Brinks: questo è il più bello in assoluto, è la chicca che ogni volta che appare nella timeline mi fa fermare per qualche secondo, mi scalda il cuoricino e mi stampa un sorrisone in faccia. Lui è il cane più felice del mondo, e sfido chiunque di voi a non lasciarsi contagiare. Forza, aprite il link, guardate anche solo un paio di foto e tornate qui.

    Fatto? Avete perso, nevvero?
Quegli enormi cosi gialli.
Mi ha colpito fin dal principio l'assiduità con cui le aule studio delle varie facoltà siano sempre piene. Da Gennaio a Luglio, dalle sette di mattina alla notte (alcune sono aperte 24 ore su 24), ci sarà sempre qualche studente chino sui libri o seduto a ripetere a se stesso, rigorosamente in silenzio, nella speranza di ricordare. È da un po' che penso di scrivere un post sulle differenze tra il sistema universitario in cui sono cresciuta e quello che sto scoprendo qui, ma la questione merita un post a parte e ben scritto "ma non è questo il giorno!" (cit.). Ci tenevo però a scrivere di una cosa buffa che ho notato in questi due giorni: vista la prima volta, ho cominciato a notarla sempre di più, dappertutto, e mi chiedo come sia stato possibile non vederla prima.
Cuffie gialle.
Enormi cuffie gialle cancella rumore. Non so perché siano tutte gialle, la prima cosa che mi è venuta da pensare è che magari è un modello economico e che funziona, o forse semplicemente non essendo Namur una metropoli è l'unico facilmente reperibile. Non so. Fatto sta che tantissimi studenti studiano con queste enormi cuffie gialle sulle orecchie, siano essi nelle aule studio dedicate, in quelle che noi chiameremmo "residenze" o per i corridoi (sfruttando i banchi lì disposti). Non sentono musica, perlomeno non in quel momento, servono solo ad isolarsi dal mondo esterno: come se ad indossarle diventassero Super Sayan dello studio. Sono quasi un po' dispiaciuta di non averci pensato io, durante quei medio-brevi ma intensissimi periodi di studio matto e disperatissimo.
Se non avessero funzionato quale cancella rumore, almeno avrei potuto tirarle a quelli che parlavano in biblioteca.

lunedì 18 luglio 2016

Tutta colpa delle birre

Lo scorso weekend sono venuti a trovarmi sia G. che L., un po' per conoscere Namur (in particolare L., che G. ormai la sa a memoria) ma soprattutto per passare del tempo insieme, ché il vivere in tre Paesi diversi e l'avere tempi di ritorno in Italia non sincronizzati non aiutano molto a vedersi.
Non è che Namur sia esattamente una metropoli nugolo di attrazioni, anche se qualche bella passeggiata non manca e osservando la città dall'alto della Cittadella abbiamo scoperto che alla fiera ci sono le giostre (le giostre! La me bambina saltella ancora adesso sul posto!). Però ecco, insomma, se si è appiedati e al centro non è che proprio ci siano giornate intere da riempire con cose da fare.

Fortunatamente il Belgio offre una serie di intrattenimenti che ci gustano parecchio: birre, decine di birre buone. Ma quali pinte calde e annacquate inglesi, dimenticate le bionde scialbe francesi: un qualunque pub di media qualità vi proporrà una selezione che soddisfa tutti i gusti, dalle blanches (... de gustibus...) alle corpose brune, esplorando con gioia e tripudio tutto ciò che c'è nel mezzo.
E io che comincio a darlo per scontato!
Complice un weekend particolarmente caldo e asciutto, abbiamo goduto di quella che finora è stata una fantomatica leggenda: l'aperto. Dall'aperitivo alla tarda serata passando per la cena, placidi e soddisfatti abbiamo sorseggiato le nostre birre seduti all'aria "fresca", così come siamo stati abituati da anni di Roma. E così, tra un cubetto di formaggio e uno scambio di opinioni, il tempo è trascorso senza che ci servisse altro, rilassatamente seduti alla luce del tramonto o sotto il cielo stellato.

"Ma perché ci racconti tutto questo?"
Perché ho assaporato cosa vorrebbe (vorrà?) dire vivere questa realtà al suo meglio e con le Persone giuste, con quelle con cui c'è davvero una profonda sintonia. Ed è stato allo stesso tempo rilassante e malinconico.
"E dovevi aspettare 'sti due? Non hai ancora trovato qualcuno lì?"
Chissà. Aldilà dell'amore per la bevanda luppolata (che è meno diffuso di quanto pensassi, evidentemente), non mi è ancora molto chiaro se il periodo di studio e approvazione reciproco è normale sia così più lungo rispetto a quanto sia abituata o se apparteniamo a due piani diversi (per cultura, tradizione e usanze) che si intersecano piacevolmente ma non si sovrapporranno in ogni caso.
"Sei triste?"
Non proprio. Ho imparato a convivere con una delicata ma costante nostalgia da anni ormai, anche se l'oggetto di tale sensazione è mutato nel tempo (n.d.a., si è moltiplicato). È strano però provare nostalgia per qualcosa che ancora non è esistito, per qualcosa di cui si è conosciuta solo una breve proiezione, magari nemmeno realistica. Forse sarebbe semplicemente più corretto definirla mancanza. Certo è che ancora una volta ho capito che un Luogo non è composto solo dal Dove ma anche dal Chi: e forse quello che è successo (e che succede ogni volta che qualcuno viene a trovarmi) è che mi è stato mostrato un altro Luogo, bello e accogliente, ma diverso dal Luogo reale del quotidiano.

O forse fremo solo all'idea che tra poco torno a Casa, anche solo per le vacanze.

giovedì 7 luglio 2016

Parlare con le persone.

Una decina di giorni fa ho preso armi e bagagli e sono partita alla volta di Bad Honnef, ridente paesino tedesco nei pressi di Colonia. Obiettivo della spedizione? Partecipare ad una scuola* sulla formazione degli exoplanets (che poi in italiano sarebbe "esopianeti", ma è sempre strano utilizzare la propria lingua per qualcosa di cui leggi, parli e ascolti sempre e solo in inglese).
Dopo tre treni, qualche corsa e una collega recuperata per strada, ci siamo ritrovati davanti al Centro che avrebbe ospitato la scuola: in pratica, il castello del Professor X degli X-Men.


[Ammetto che la mia impressione potrebbe essere stata esagerata dalla sorpresa e dalla fame, ma diciamo che l'atmosfera era la stessa.]

In quel posto avremmo dormito, seguito le "lezioni", mangiato (tanto!, spesso!, bene!) e bevuto.
(A tal proposito mi sento di aprire una lunga parentesi: quando ci hanno spiegato come funzionavano le cose, ci hanno parlato anche delle liste su cui avremmo dovuto annotare le bibite consumate durante i giorni, da pagare alla fine della permanenza. Ad esclusione dell'acqua e della birra alla spina, che erano gratis. Pensavamo scherzassero. E invece...)
Tutta questa lunga introduzione per dire che i 60 partecipanti (provenienti da tutto il mondo) avrebbero trascorso cinque interi giorni letteralmente insieme.

Parlando inglese.
Oh, gioia e tripudio! Comunicare! Esprimersi! Tutti nella stessa lingua!
Guidata da questa prospettiva così diversa dal mio quotidiano, a differenza del solito sono stata la persona più comunicativa e più socievole del mondo: addio problemi nel parlare con sconosciuti, benvenute conversazioni da ascensore per attaccare bottone!
Ho trascorso ore a parlare con tantissima gente diversa, tra l'altro incontrando, in un'incredibile serie di circostanze, una persona con cui ho "di seconda mano" ma stretti legami scientifici.

E però.

Tutto bellissimo, tutto fantastico, ma mi sono ritrovata a chiedermi cosa voglia dire davvero parlare con qualcuno. In situazioni di questo tipo capita spesso di essere interrotti, di vedersi accavallare argomenti, di deviare per un attimo la conversazione: il 90% delle volte, il mio interlocutore non ha ripreso il filo del discorso.
In principio, l'ho notato soprattutto quando il discorso interrotto era il mio: avevo premuto il tasto "pause" e adeguatamente riservato uno spazio nel mio cervello per ricordarmi cosa stavo dicendo, perché lo stavo dicendo e come avrei continuato; mi lasciavo guidare da quella sorta di aspettativa che mi generano sempre le cose lasciate in sospeso per essere riprese; aspettavo il momento in cui l'altro (o l'altra) avrebbe voluto sentire la fine della storia.
E invece nulla.
Ora, non è che io pretenda di dire sempre cose interessanti o divertenti, anzi: però per me è inconcepibile. Fa parte del mio schema mentale da sempre. E lo so perché Madre ha spesso la brutta (nella mia scala valutativa, ovviamente) abitudine, quando siamo a tavola, di iniziare un concetto o una frase e poi prendere una bella forchettata dal piatto. Prima di aver finito di dire quello che stava dicendo. E come la buona educazione insegna, non si parla con la bocca piena. Quindi ben conosco la sensazione di suspence del dover aspettare per sapere la fine, la straziante attesa di quel qualcosa che completi il puzzle e faccia rilasciare al mio cervello il meraviglioso segnale di "ok, anche questa volta ce l'abbiamo fatta, nessuna cosa in sospeso!". E questo indipendentemente dall'argomento: può anche non interessarmi, ma io devo sapere come va a finire.
Per me è dunque assolutamente naturale e fondamentale chiedere, in caso il mio interlocutore sia stato interrotto: "dunque, stavi dicendo?". E il fatto che per gli altri non sia lo stesso, mi lascia sempre un po' sconcertata.
C'è sempre l'opzione di riprendere il discorso da sé, che è ciò che di solito faccio quando ritengo che quello che sto dicendo valga davvero la pena, in termini di interesse o divertimento. Succede spesso, ma che ci posso fare se ho tantissime valide cose da dire? [IRONIA]
Siccome cominciavo a notare spesso questa tendenza, ho intrapreso un piccolo esperimento: quando il discorso lasciato a metà non era il mio, la maggior parte delle volte ho evitato di riprenderlo per vedere cosa sarebbe successo. Potete immaginare che dolore mentale per me non completare qualcosa pur avendone la possibilità, ma cosa non si fa per la scienza?!
Ebbene, spesso il discorso non è stato ripreso. La persona che avevo di fronte non ha continuato. Cominciava quindi a non essere più un problema di "magari non capisce il valore del mio brillante discorseggiare", ma di quale fosse il valore attribuito alla conversazione. Se non ti interessa quello che sto dicendo ma non ti interessa nemmeno finire quello che tu stai dicendo, allora non stiamo comunicando, non stai cercando di trasmettermi un messaggio: stiamo riempiendo il silenzio, stiamo facendo scorrere il tempo, stiamo togliendo la ruggine al nostro inglese. Per carità, potrebbe andare pure bene, ma siamo su due canali completamente differenti.

Non è successo con tutti, ovviamente. Ci sono state molte persone con cui ho connesso subito, con cui ho parlato moltissimo e riso tantissimo. Ho conosciuto tanti che spero di incontrare di nuovo, in situazioni simili. Ho portato a casa tutto questo.
Ma ho anche portato a casa la consapevolezza che il mondo è pieno di effimere conversazioni e di parole dette tanto per riempirsi la bocca, il che è addirittura oltre l'essere interessato solo a quello che riguarda il sé. È il segreto di Pulcinella? Magari si, magari ho scoperto l'acqua calda perché non mi capita così spesso di avere a che fare in modo intensivo con decine di persone sconosciute. Di sicuro, ho scoperto un'altra cosa che mi lascia un po' di tristezza addosso.



* piccolo appunto linguistico. Nel mondo scientifico italiano, io ho sempre sentito utilizzare il termine "scuola", inteso come un insieme di workshop e lezioni riguardanti uno stesso argomento, con una costruzione equivalente a quella del termine "corso". Da cui la frase "partecipare ad una scuola". L'appunto deriva dalle critiche ricevute in famiglia non appena ho utilizzato questa espressione, cosa che mi ha colpito perché per me (e per migliaia di altre persone) è naturale.
È anche corretto? Non so, ma entrando in una comunità ci si deve adeguare al suo linguaggio.

venerdì 24 giugno 2016

Merci!


Parlavo qualche tempo fa con E. e commentavo il fatto che non essere padrona del francese non mi permette di essere gentile come vorrei.
"Beh, perché? Se sai salutare, dire grazie prego arrivederci, hai tutto il necessario".

La risposta mi ha spiazzata, e non capivo bene come mai: il ragionamento di per sé non faceva una piega, soprattutto se contestualizzato ad una situazione qualunque nel quotidiano al di fuori dell'università, ma non ero convinta.
C'ho pensato un po' su e ho capito dove stava la magagna: ora sono più tranquilla (perché davvero mi tormentava il pensiero di non capire) e voi avete qualcosa da leggere.

Il punto è che dire "buongiorno buonasera grazie prego arrivederci" non è gentilezza, è educazione. E se l'educazione è necessaria per essere gentili, le due cose non si equivalgono.
Cos'è quindi che mi manca? Perché ogni volta che sostengo brevi (brevissime!) conversazioni ho un groppino in gola per la consapevolezza di avere una capacità comunicativa gentile limitata? In che modo sarei gentile ad esempio con la cassiera del supermercato, se potessi esprimermi compiutamente? Beninteso, non mi riferisco ad una consuetudine, non avrei una check-list del tipo "buste della spesa-carta di credito-gentilezza", ma parlo di una mezza parola o una battuta mossa dalla spontaneità del momento. Non ho trovato esempi concreti, so che è successo innumerevoli volte (in altre due lingue) ma non saprei citare un episodio in particolare: proprio perché sono cose spontanee e piccolissime evidentemente lasciano il ricordo della sensazione, non del fatto. Lo facci(am)o per puro spirito gentilezza? Per la maggior parte si, ma esiste anche quella percentuale di autocompiacimento nel riconoscersi quale brava persona che forse non è il motore dell'atto, ma sicuramente ne è una graditissima conseguenza che dà un po' di dipendenza. Che è poi anche parte del motivo per cui spesso sono (siamo?) gentile con estranei anche quando lo sono meno con persone che conosco ma con cui non ho un feeling particolare, o con cui non condivido una simpatia.
[Spero questo risponda a chi leggendo si sia domandato: "Gentile? Ma chi, QUELLA?"]

C'è una vecchina che abita su una delle stradine per andare al supermercato; la porta che affaccia sul suo giardino dà direttamente sul marciapiede, in curva. La strada è piccina, ma abbastanza animata dal passaggio di persone (per la maggior parte studenti) e di qualche macchina.
E la vecchina sta lì, in piedi sul marciapiede, con il giardino che si intravede dalla porta alle sue spalle: non aspetta nessuno, non cerca qualcuno in particolare, non è con nessuno. Che sia freddo inverno o afosa estate, lei è lì, e le persone e le macchine le scorrono affianco in un flusso che la sfiora ma non la accarezza. Facevo parte anche io di quel flusso, fino a quando una volta le siamo passati accanto con i miei genitori e Madre l'ha salutata: e con che espressione contenta ci ha risalutati! Da quel momento ho cominciato a fare caso alla sua presenza, e a percepire un po' di solitudine (o magari è la vecchina più attiva del mondo e in quei momenti "scappa" da una casa piena di nipotini e di amore, eh!, chissà. Però non sembrerebbe).
Cerco allora di darle ogni volta tutto ciò che ho a mia disposizione in questo momento: attenzione e un sorriso.
"Bonjour Madame!"
"Bonjour, et merci!"

Lo sto studiando nel frattempo il francese, ma forse non è poi così indispensabile per suscitare un caldo e sincero sorrisone un po' sdentato.
È comunque un buon inizio.



Ps: e niente, pare il supermercato e tutto ciò che lo concerne stiano cominciando a diventare il centro del mio mondo.

domenica 12 giugno 2016

Da grandi superpoteri derivano grandi responsabilità. Da quelli stupidi...

Chi non vorrebbe essere un supereroe? Io si.
La fama? La gloria? Sapere di poter aiutare il mondo? Tutto molto bello, ma il vero motivo è che ci deve essere un fondo di categoria per supereroi, perché questi passano il loro tempo in giro a salvare quello di là, a sgominare quegli altri di là, ma o non hanno un lavoro conosciuto o con quello che hanno e fanno malissimo (perché supereroe o no, sempre 24 ore c'hai) riescono miracolosamente a sopravvivere. Mai un tizio in un costume che soffra la fame. Capiamo che non è possibile. Quindi una volta che sei della cricca, stai a posto a vita.

Ora, per fare il supereroe serve un superpotere.
A meno che non siate multimiliardari, tipo Ironman o Batman. Ma giacché non sto nascondendo conti offshore, saprete che non è questo il mio caso: abbisogno quindi di un superpotere come si deve.
La questione mi ha coinvolta parecchio, per cui ho potuto buttar giù una lista di plausibili capacità straordinarie che in qualche modo contorto potrebbero valermi un (probabilmente ridicolo) costume colorato.

Rinsecchimento di blog.
È più o meno matematico. Inizio a seguire un blog aggiornato costantemente e con contenuti interessanti; il blog inizia ad avere contenuti nuovi sempre più sporadicamente; a volte addirittura i nuovi post non solo sono sporadici, ma fanno pure schifo; si giunge ad una fredda, inaggiornata morte. Nel migliore dei casi, resta comunque aperto, abbandonato, per cui almeno c'è la possibilità di rileggere vecchi post meritevoli: triste evenienza, ma con un lato positivo. Nel peggiore dei casi, sparisce per sempre.
Possibile uso. Scie chimiche, vaccini che causano l'autismo, complottismi, rettiliani, neofascismi: di blog da far chiudere e dimenticare per sempre ce ne sono talmente tanti che questo superpotere rischia quasi di essere utile.
Ma che immagine di transizione
tra i due argomenti vi ho trovato, eh?!

Autosabotazione igienica.
"Uh, ma guarda, ho appena finito il rotolo di carta igienica. Ora lo sostituisco immediatamente, così la prossima volta non mi ritroverò in una spiacevole e scomoda situazione!"
(Più tardi)
"D'oh!"
Possibile uso: non pervenuto. Ma il potere è grande in questa idiota.


Procrastination mon amour.
Qui so alcuni di voi penseranno di poter competere, ma vi assicuro che sono un peso massimo nella categoria. Che si parli di lavoro o di faccende di casa, non esiste limite temporale che non possa essere indefinitamente avvicinato senza aver portato a termine il compito. D'altronde, alla fine le cose vanno fatte, il che si traduce in molteplici disdicevoli scenari.
Deadline sul lavoro? Nottate passate davanti al computer con gli occhi iniettati di sangue dalla carenza di sonno, litri di tè o caffè (nei casi più disperati), nuovi capelli bianchi, automaledizioni e solenne promesse: "dalla prossima volta, comincerò a lavorarci per tempo". Pernacchie incredule come se piovesse.
Bisogna fare la spesa? La nostra eroina si ritrova alla fine con svariate buste della spesa il cui peso varia a seconda dell'intensità con cui si sfrutta il potere, ma che solitamente non è mai inferiore ai 5-6 kg. Per busta. Quella volta che si raggiunse il massimo, avendo svuotato completamente il freezer e saccheggiato le scorte di verdure in lattina (tenute in casa per le emergenze e non per uso quotidiano, tranquilla Madre), il peso delle buste fu tale da farmi avere braccia doloranti per due giorni.
È ora di fare le pulizie? Invece di suddividere il tutto in piccoli compiti quotidiani, si rimanda tutto ovviamente a quando la situazione è quasi al limite (quasi, perché non disdegno comunque l'igiene). Quelli che potrebbero essere pochi minuti al giorno di pulizie si accumulano inevitabilmente fino a generare una trasformazione alla Hulk: invece che grosso omone verde, mi ritrovo massaia, febbrilmente alla caccia dell'ultimo granello di polvere. Che, per la cronaca, non è mai davvero l'ultimo.
Possibile uso. Si accettano suggerimenti: anche in questo caso, il potere è talmente forte in me da rendere il suo inutilizzo un vero spreco per l'umanità. O così mi piace credere.

Disfunzione vestiaria.
Uno dei miei preferiti: consiste nell'incapacità di vestirsi coerentemente con la temperatura esterna del giorno. È sempre stato il mio tallone d'Achille durante quelle che una volta si chiamavano mezze stagioni e che ora sono "quei giorni di transizione a caso", ma qui in Belgio la situazione si fa ancora più interessante, perché a priori può piovere sempre. A maggior ragione è quindi richiesto uno studio accurato della situazione, per poter bilanciare il calore e l'impermeabilità dei vestiti, ma niente, non ce la si fa. È che mi scordo proprio della possibilità di mettere il naso (o la mano, ché mi sembra più pratico) fuori dalla finestra la mattina.
Possibile uso: facile. Infiltrandomi nel servizio meteo del nemico, potrei agilmente suggerire l'abbigliamento più inadeguato (senza neanche impegnarmi, tra l'altro).
"Signore, ha iniziato a piovere: procediamo con l'invasione?"
"Ma no, sciocchino!, era previsto sole: abbiamo i mocassini di camoscio, ci si sciupano!"
Nessuna donna normale si veste COSÌ sapendo che piove COSÌ.