Chi?

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Namur, Belgium
Gattofila, razionalmente disordinata, ossessivo-compulsiva part-time.

martedì 13 dicembre 2016

La dichiarazione d'amore più sincera che abbia mai scritto.


Scrivo di impulso, approfittando del fatto che la stanchezza e lo slancio dell'aver appena allineato queste parole nella mia mente stiano by-passando un po' di filtri ("oddio, ma sarà davvero il caso di scrivere questa cosa smielata e senza molto senso? Ma davvero? E se poi me ne pento?").

Il coro dell'università ha molti meriti, ma certamente è ben distante dal repertorio e dal livello a cui gli ultimi anni mi hanno abituata: in particolare, il ritmo scandito dall'apprendimento di nuovi brani è decisamente più rilassato. Tradotto: sono contenta di andare, ma mi annoio un po'. In caso di stanchezza, la noia assume una sfumatura di irritazione, ma d'altronde questo succedeva anche prima, quindi deve essere un mio tratto caratteristico.
E niente, oggi ero lì, un po' annoiata e con questa sfumatura, quando abbiamo cantato buona parte (tutta di fila!) di "Africa" dei Toto.
Vi lascio un mini video per darvi uno spunto su come immaginare lo scenario...




... che è solo uno spunto, perché chiaramente non c'è un asciugamano di un "allarmante tono di rosa" (cit.), non c'è purtroppo una vasca e in generale non proviamo in un bagno. Ma è una delle scene che mi è sempre rimasta impressa di Scrubs, mi piaceva l'idea di condividerla.

Quindi eravamo lì a cantare, io un po' annoiata, sinceramente chiedendomi se ne valesse la pena, quando
It's gonna take a lot to drag me away from you.
Già. Quando ho realizzato quanto profondamente fosse vero e quanto, nonostante tutto questo sentimento faccia parte di me ormai da qualche anno, sia ancora vivo e bruciante... lì, in mezzo ad una sala di sconosciuti e a qualche battuta un po' stonata mi è venuto da piangere. [Spoiler: no, non ho pianto]

Perché io lo amo. Perdutamente.
E se pensate che la domanda da porvi sia Chi?, siete fuori strada.

È un amore che è sbocciato talmente tanti anni fa (ventuno?) che non mi ricordo neanche il primo incontro: so che c'è stata un'insegnante, una persona che mi ripropongo da molto tempo di cercare di rintracciare perché, anche se inconsapevolmente, mi ha cambiato la vita. E credo sia giusto (e che le farebbe piacere) che lo sappia, che abbia la prova tangibile che almeno per una persona i suoi sforzi non sono stati vani, che il messaggio è passato ed ha attecchito.
Mi ha marchiata.
Nel corso degli anni è cambiata spesso la forma, ma il concetto è rimasto identico. Ho avuto la fortuna di aver incontrato persone carismatiche e piene di passione, che hanno saputo mantenere viva e alimentare quella piccola fiammella che sarebbe poi cresciuta fino ad ardere autonomamente.

È un amore che al liceo ha salvato un'adolescente un po' sgraziata e molto insicura, ammantata in una corazza di arroganza, dalla probabile solitudine, e che l'ha poco a poco trasformata: è diventata una persona sempre un po' arrogante, ma sicura di sé, con la schiena dritta e una nuova consapevolezza che da soli si può stare, ma le cose belle si costruiscono unendosi ad altri. E grazie a questo sono nate relazioni che vivono tuttora, quegli "amici di una vita" che ti sembra ci siano sempre stati.

È un amore che mi ha portata necessariamente ad assumermi responsabilità, a sviluppare capacità organizzative e (un po' meno efficientemente) intelligenza sociale: perché tanti devono diventare uno, ma non esiste la bacchetta magica che lo faccia al posto tuo, e allora bisogna ingegnarsi un po', bisogna evolvere. È una passione che mi ha reso una persona migliore, perché lavorando spesso per metafore è stato immediato capire come certi concetti potessero essere portati da una realtà di nicchia ad uno schema con cui vivere lo Stato Civile: il singolo ha dignità e importanza e il diritto di esprimere la propria individualità, ma sempre con in mente il beneficio per il Tutto.

È un amore che mi ha fatto soffrire, arrabbiare, innervosire, emozionare e piangere, di tristezza e di gioia; che ha preteso e pretende tempo ed energie e disciplina e concentrazione, ma che dà talmente tanto, soprattutto in alcuni magici momenti, da farti pensare ad un purissimo "Ne vale la pena".
È un amore che prevede spesso addii e arrivederci: alcuni fanno ancora male, c'è ancora quella spina nel cuore che quando il cuore si gonfia per l'emozione del ricordo TAC, è lì pronta sempre a pungere. Alcune mie relazioni sentimentali non sono arrivate a tanto.

È un amore che non capisco come possa non contagiare chiunque.

Perché tu sei lì, e sei tu, la persona che conosci, con la voce che conosci, con i limiti che conosci; intorno a te ci sono altre persone, ciascuna con una propria identità, alcune molto simili a te e altre completamente diverse, e non importa come e quanto tu le conosca; hai uno spartito in mano, a volte neanche quello; un attimo dopo sei parte di un'entità intensa e meravigliosa, che da sola non avresti mai potuto creare. Sei come un filo di seta colorato che sarà pure carino da solo, ma che una volta accostato sapientemente ad altri fili crea trame inaspettate e bellissime.

E la tua voce, quella che senti da tutta la vita, improvvisamente non è più quella, ma è arricchita da tante altre che con lei costruiscono o distruggono armonie, colori, intensità, emozioni.

Perché questo grande amore è tra me e il canto corale.

Le sue declinazioni possono essere infinite e vanno dalle poche pretese alla quasi perfezione, ma il corpo, la sua essenza, il suo valore sono sempre e comunque quelli.

E quindi mentre sono lì che canto Africa e penso ai mille modi in cui si potrebbe fare meglio e alla velocità a cui si potrebbe imparare e agli altri brani che si potrebbero studiare al suo posto, mi viene da piangere perché, nonostante tutto, io senza il coro non riesco a stare; perché, qualunque sia stato il periodo della mia vita, c'è sempre stato un coro a rappresentarlo; perché, guardandomi intorno, vedo persone diversissime tra loro e con mille background musicali e culturali che se ne infischiano delle loro mancanze e sono lì, a cantare; perché, davvero, It's gonna take a lot to drag me away from you.

venerdì 2 dicembre 2016

Come uccidere il Bianconiglio: parte 1 (la teoria).

Ho l'impressione che in Italia aleggi indisturbato il mito che nei Paesi “più a nord” siano sempre più bravi, parlino meglio inglese e le cose funzionino meglio.
Come ampiamente 
già raccontato, la parte sull'inglese non solo non corrisponde a verità, ma nel mio caso belga (francofono, ché dillà è tutta un'altra cosa) è esattamente il contrario. L'improvvisa realizzazione che la fantomatica diffusione dell'anglofono idioma era tutta una finta ha sgretolato quella cortina dorata e scintillante che per antonomasia ricopriva i Nordici e che nascondeva i fatti oggettivi, e infatti non ci è voluto molto per trovare altri esempi.
Parliamo dei treni.
Ogni volta che mi lamento con degli italiani dell'ennesimo ritardo del treno, mi sento sempre rispondere “che vuoi che sia, ma che non ti ricordi com'è la situazione in Italia/a Roma?”. Il punto però è che questo ritardo si inserisce in un contesto per cui il sistema ferroviario è una delle peggiori piaghe di questo Paese. Ma andiamo con ordine, ché sennò è facile pensare che io stia esagerando.
Tutto cominciò ormai un anno (!!!) fa, quando ad ottobre 2015 volai a Namur un lunedì per preparare la presentazione per il colloquio per la borsa di studio (il venerdì). La mia futura advisor (o promoteur, come si dice da queste parti) mi informa un paio di giorni prima del mio arrivo che sarà costretta a venirmi a prendere in aeroporto: è previsto uno sciopero dei treni e non esiste un collegamento alternativo che sia abbastanza umano. Vabbè, sfortuna.
Passano i mesi ma il viaggio è sempre quello. A Gennaio, arriva il giorno del trasferimento: presi armi e bagagli (non troppi, ché sempre 30 kg ho a disposizione), mi ritrovo di nuovo una mail, sempre dalla promoteur, che dice che è previsto un altro sciopero e che quindi, di nuovo, verrà a prendermi in macchina. Non che mi lamenti, spostare le valigie su e giù dai mezzi non è che mi attiri particolarmente: la coincidenza però comincia a farsi sospetta.
Gennaio, una settimana dopo: G. viene a trovarmi per la prima volta, quindi decido di “andarlo a prendere” (incontrarlo, cara, si dice “incontrarlo”) a Bruxelles, anche per acquisire un po' di confidenza con una tratta che ormai conosciamo a memoria ma che allora era una novità. Arrivo in stazione a Namur e scopro che il treno che fino a quindici minuti prima sul sito delle ferrovie era dato come perfettamente in orario, è stato cancellato.
Boom. Così. Cancellato.
(Mi sono sempre chiesta, qualora il sito avesse avuto ragione fino a 15 minuti prima, dove siano poi finiti quei poveri passeggeri di un treno che un attimo prima era in orario e un attimo dopo puf!, non c'era più).
Niente di grave, il treno successivo è in pochi minuti, arriverò giusta giusta ma arriverò. A Bruxelles, arriva G. e ci apprestiamo ad aspettare una ventina di minuti il primo treno per tornare indietro a Namur. Se non che… PUF!, il treno viene improvvisamente cancellato.
Boom. Così. Cancellato.
In quella fascia oraria (nove di sera) c'è un treno ogni mezzora, quindi magicamente ci ritroviamo a dover aspettare per ~ venti minuti + mezzora = quasi un'ora il treno che ci riporterà, finalmente, a casa.
A quel punto, l'inganno era stato scoperto, e l'idea di un sistema funzionante nel suo complesso a cominciato a mostrare crepe e zone d'ombra: da quel momento, ho contato sulla punta delle dita i treni che ho preso che sono partiti e/o arrivati in orario. Non si tratta sempre di ritardi esagerati (la maggior parte delle volte comunque non sotto ai dieci minuti), ma ciò che infastidisce è l'attitudine che l'azienda ferroviaria ha nei confronti di quelli che prima o poi vorrebbero essere passeggeri di un treno: annunci dei ritardi che arrivano quando non solo il treno dovrebbe essere già arrivato al binario, ma addirittura ripartito; scarsità di informazioni quando tu, ormai, su quel treno ci sei e non puoi farci niente, ma vorresti perlomeno sapere quale sarà il tuo destino; treni cancellati da un momento all'altro a cinque minuti dalla presunta partenza.
Ogni tanto mi sembra di essere diventata una sorta di Bianconiglio... con la differenza che probabilmente lui sarebbe già morto per un attacco cardiaco da stress.
C'è stata quella volta in cui uno sciopero previsto per dei giorni ben definiti è andato avanti ad oltranza, bloccando metà del Paese (la mia, chiaramente). O quella in cui il primo treno del giorno (il primo, Santo Cielo, il primo!) da Bruxelles ha cominciato ad accumulare ritardo da appena partito, per risultare poi in un viaggio della speranza durato il doppio del tempo normale e disseminato da adrenaliniche soste in mezzo al nulla cosmico con annunci del tipo “La locomotiva ha problemi, siamo fermi per cercare di farci qualcosa, ma non sappiamo fornire previsioni su quando ripartiremo”.
O ancora quella per cui ho aspettato il treno in ritardo di mezzora una stazione sfigatissima piena di spifferi, mentre fuori c'era una tempesta di neve: in quel caso però è stata un'ottima occasione per uno studio sociale sulle strane 
abitudini vestiarie degli autoctoni, e poi eravamo talmente tanti da scaldarci a furia di respirare (tipo il bue e l'asinello).
E questo è nulla, non vi ho ancora raccontato gli episodi veramente diverten imbarazzanti: quando il Bianconiglio ha cominciato a correre.

Arriveranno.