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Namur, Belgium
Gattofila, razionalmente disordinata, ossessivo-compulsiva part-time.

mercoledì 23 novembre 2016

Sinuosi parallelismi.


Scrivevo di come sia affascinante atterrare a Roma di notte, da Nord.
E poi non ho scritto più, ché già ero a Casa (e questo dovrebbe bastare come motivazione del non scrivere, essendo impegnata a godermi tutto e tutti), in più ero tornata per lavorare e quindi tempo passato a fare niente come scrivere non ce n'è stato. Ma poi sono tornata.

Tornare a Namur significa di solito atterrare all'aeroporto di Charleroi: da lì autobus e poi, stavolta, un'ora di attesa per il treno (i post sui treni arrivano, sono già mezzi scritti) che poi con i suoi buoni quaranta minuti arriva a destinazione. E su quel treno ha cominciato ad affacciarsi la sonnolenza, dovuta alle ore di sonno perse durante le due settimane (troppe persone da vedere, troppo poco tempo nonostante tutto), alla tensione da esaltazione costante dell'essere a casa che scemava, alla consapevolezza di essere alla fine di un viaggio che comincia ad essere routine: non mi sono addormentata, sono semplicemente andata un po' fuori fuoco, proprio come può succedere quando si fa un percorso a cui si è abituati e per cui ormai inseriamo il pilota automatico (anche su questi automatismi avrei un post, ma questo è solo in testa per ora). Non ero quindi attenta a dove fossimo e a quanto mancasse, avevo lo sguardo fisso fuori dal finestrino ma non guardavo davvero.



Charleroi e Namur sono collegate, oltre che da strade e dalla linea ferroviaria, anche da un fiume, la Sambre, che proprio a Namur va dolcemente a perdersi nella più grande Meuse.
La linea ferroviaria e il fiume dunque si accompagnano, allontanandosi solo per riavvicinarsi fino ad intersecarsi (per lo meno, visti dall'alto), scambiandosi i posti solo per ricominciare questa sorta di lenta danza: le acque quindi si intravedono spesso quando si è sul treno, e i tratti in cui le sponde sono illuminate sono spesso gli unici segni distinguibili nel buio della tarda sera.

Dicevamo che ero lì, fuori fuoco, persa a fissare ad occhi aperti il finestrino, alternando il percepire il paesaggio esterno (comunque buio e privo di punti di riferimento al di fuori dei centri abitati) a quello del riflesso dell'interno, senza vedere né l'uno né l'altro.
Fino a quando non mi sono ritrovata a seguire con lo sguardo il fiume, a seguire il susseguirsi di lampioni sulle rive il cui andamento... riconoscevo! Inconsciamente, devo aver registrato il percorso dell'acqua che precede l'entrare in città, e averlo riconosciuto come il preludio dell'arrivo. E infatti un minuto più tardi siamo passati vicino a quell'ansa che sì conosco bene, perché casa mia non si vede, ma è proprio lì dietro. A quel punto è comparsa la scritta sullo schermo del treno dell'imminente arrivo a Namur, ma ormai lo sapevo già.

Mi ha colpita la naturalezza con la quale prendiamo punti di riferimento senza accorgercene, mi ha colpita la delicatezza con cui il profilo del fiume è gradatamente passato dall'essere un elemento sfocato e impreciso sullo sfondo ad assumere contorni delineati e riconoscibili, che dolcemente hanno risvegliato la coscienza. Un po' come fa l'odore del caffé appena preparato amorevolmente da qualcuno mentre ancora dormiamo in una pigra domenica mattina.
E mi ha colpito il parallelismo che mi è balzato in mente tra l'Appia, che da Roma centro mi accompagnava sempre più freneticamente all'aeroporto, e la ben più placida Sambre.

Casa?

martedì 8 novembre 2016

Atterrare a Ciampino di notte da Nord.

Atterrare a Ciampino di notte da Nord è uno spettacolo bellissimo: se poi si hanno i posti dalla D alla F (per gli standard Ryanair, a destra del velivolo), sarebbe quasi giusto far pagare un biglietto.

Il La lo dà il serpentone illuminato del GRA, con le macchine che da lassù sembrano scorrere paciose ed armoniose, lungi dal lasciar trasparire il nervosismo e la stanchezza che forse accompagnano chi le guida; raccoglie il testimone lo Stadio Olimpico, che forse non sarà una bellezza artistica, ma fa sempre il suo bell'effetto.
Roma continua a scorrere a centinaia di piedi al di sotto, e seguendo con lo sguardo le strade principali, queste cominciano a convergere verso il centro.
Lontano, imponente, appare San Pietro; sembra davvero indifferente al resto della città, immerso eppur distaccato: visto da questa prospettiva così particolare, viene da pensare che gli architetti fecero un ottimo lavoro nel costruire il simbolo di una Chiesa immortale e stabile sulle proprie fondamenta (che poi sia davvero così, è un'altra storia).

Cominciano a susseguirsi sempre più velocemente altri luoghi simbolo: s'intuisce il Tevere, e poi Via Nazionale, improvvisamente la Stazione Termini, il Colosseo, Santa Maria Maggiore! Un climax di punti di riferimento per cui non si sa più dove guardare.
A quel punto di solito seguo lo snodarsi dell'Appia, mentre si scivola verso il basso sorvolando Roma Sud. Perché l'Appia? Per comodità, certo, perché è davvero facile da individuare e da non perdere; perché lungo l'Appia si evolve in modo evidente quella sorta di rallentamento della città verso la periferia; ma soprattutto perché l'Appia arriva fino all'aeroporto, e mi piace pensare sia una sorta di gentile accompagno di Roma, come una mano porta per sostenere gentilmente una lenta discesa lungo una scalinata.


Durante questa discesa si scorgono enormi macchie scure, quasi inquietanti nel mezzo di quella leggera ragnatele di luce: sono i Parchi, polmoni verdi di giorno e neri di notte. Nonostante l'oscurità, illuminati di luce riflessa da chissà quale sorgente, pallidamente si intravedono degli acquedotti romani. L'Appia è sempre meno distante, e anche il suolo si avvicina sempre di più.
Ieri, una novità: in mezzo ad una delle macchie scure, tante piccole lucine di un treno regionale che scorrevano lentamente in direzione contraria, verso il centro, scivolando sospese nel buio.

E poi di nuovo il GRA l'ippodromo le prime luci della pista la strada che costeggia l'aeroporto la pista vera e propria gli hangar gli aerei parcheggiati il contraccolpo una volta toccato l'asfalto la frenata un po' di sbandata.

Casa.


giovedì 3 novembre 2016

Le strane parole che imparo: v. 1.0.

Lo studio del francese prosegue: comprendere una conversazione non è più un'impresa dal sapore apocalittico, la comprensione scritta procede alla grande, la scrittura si è avviata. Sul parlato, siamo ancora a livello gibbone, ma è sufficiente per la sopravvivenza ed è profondamente influenzato da problemi psicologici miei che vabbé, che ve lo dico a fa'.

Al di là di quello che è il normale procedere dell'apprendimento dovuto al corso vero e proprio, lo sviluppo del vocabolario ogni tanto prende direzioni molto strane, come non manca mai di notare anche quella santa di E.A., mia compagna d'ufficio e prima maestra del francese "vero", quello che si parla al di fuori dei libri. Nel corso di questi mesi, la vita di tutti i giorni ha fatto sì che io imparassi parole strane ma utili(?) e/o interessanti(?!).
Innanzitutto, è fondamentale per ogni giovane donna essere umano che speri di diventare anche vecchio sapere cosa sono i féculents, ovvero i temutissimi carboidrati (la traduzione non è letterale, ma è il termine non troppo tecnico utilizzato di solito): le malelingue potrebbero dire che un loro eccesso è ciò che mi ha portata a richiedere che fossero sostituite le lattes du lit (doghe del letto), ma la verità è che erano già rotte quando mi sono trasferita (e per la cronaca, ancora sono rotte). Se lo sono, è perché qualcuno non sta facendo al meglio il proprio boulot: scoprire che è quasi un sinonimo di travail (lavoro) mi ha sorpresa molto, e se vi fosse stato anche un pizzico di ammirazione avrei potuto esclamare "la vache!" (si, è esattamente la mucca. Ma in fondo noi in situazioni simili non solo la tiriamo in ballo ma la insultiamo pure. Persino Spock, in Rotta verso la Terra, si lascia andare ad un umanissimo "Porca vacca!").

Sorprendente è stato inoltre scoprire tutto il cerimoniale di iniziazione dei bleus (le matricole)*: messa a parte di alcuni dei canti tipici associati all'occasione, ho imparato anche cos'è la guele (bocca, ma intesa di animale, e quindi un po' dispregiativa in caso sia utilizzata riferendosi a uomini), visto che 'sti poracci vanno in giro per le strade in posizioni strane a cantare
Bleu, bleu
Je suis bleu,
Je ferme ma guele
et ca ira mieux.
 (Matricola, matricola, sono una matricola, chiudo la boccaccia "che è meglio")
Di folklore si è parlato anche in occasione di Riri, Fifi, Loulou (leggi "Lulù"), che poi si sono scoperti essere i nostri Qui, Quo e Qua: lasciando perdere nazionalismi inutili, ma quanto è più simpatico dire "Qui, Quo e Qua"?

Parlavamo di cibo (succede spesso in questo ufficio) ed è saltato fuori che potrei sentir dire "J'ai des biscottos" (o biscoto, biscoteaux, biscotos, biscotteau, biscotteaux, sono ancora un po' confusi a riguardo) da qualche palestrato che si stia vantando dei suoi bicipiti.
Biscotto. Bicipiti.
Non me ne capacito (e non siamo riuscite a trovare un'etimologia certa).

Per finire, la più recente. Il processo maieutico è stato decisamente tortuoso (e forse è anche più interessante della parola in sé): rivendicazione del diritto a cominciare ad ascoltare carole di Natale --> addobbi natalizi in ufficio --> addobbi a casa --> otto dicembre --> Immacolata Concezione --> al poro Giuseppe non l'hanno raccontata giusta. E niente, alla fine ho scoperto che stérilet è la spirale (il dispositivo anticoncezionale). Non so bene cosa farci con quest'informazione al momento, ma il commento è stato "mi raccomando attenzione, o rischi di dare a qualcuno della spirale (stérilet) invece dello sterile (stérile)".
Al che sorge spontanea una domanda: sembro forse una dispensatrice di offese a tema riproduttivo?





* Sono mesi che mi dico che devo cominciare a scrivere i post relativi alle differenze tra i sistemi scolastici e universitari. Prima o poi lo farò, e la storia dei bleus ne merita uno a sé. Perché questi davvero non stanno proprio benissimo...