Chi?

La mia foto
Namur, Belgium
Gattofila, razionalmente disordinata, ossessivo-compulsiva part-time.

domenica 8 ottobre 2017

Parlare tre lingue e peggiorarne due.

Fatto: quasi ogni giorno parlo tre lingue.
Tecnicamente, non c'è nulla da obiettare a quest'affermazione: italiano per parlare con tutte le persone che contano, il francese ormai quasi sempre per le interazioni quotidiane, l'inglese per quando il francese non è abbastanza, per il lavoro quando è importante essere sicuri di avere tutti i dettagli chiari, per aiutare alcuni del dipartimento ad impratichirsi.

Voilà, post finito. Alla prossima!

Ecco, no. Se tecnicamente parlo tre lingue al giorno, nei fatti la questione è leggermente più complessa. Innanzitutto bisognerebbe mettersi d'accordo su quale sia la definizione di "parlare una lingua": se intendiamo "esprimersi in una lingua al meglio delle proprie capacità teoriche", drasticamente il conto scende ad una (a volte nemmeno), ed è sorprendentemente il francese.
Perché se è vero che parlo tre lingue al giorno e che vivere in Belgio mi sta regalando la possibilità di imparare il francese essendone circondata, è altrettanto vero che le mie altre competenze linguistiche stanno peggiorando notevolmente.

L'ingleseCome abbiamo già visto, in Wallonia generalmente l'inglese non è diffuso. E anche all'interno dell'università, in cui uno si aspetterebbe una certa dimestichezza in più, è cosa rara trovare qualcuno che sia fluente: mediamente, chi lo parla ha un vocabolario molto tecnico e limitato, derivante dal materiale letto e scritto nel proprio campo di ricerca. Per il resto, stentano un po'.
Sono forse io uscita direttamente da un Oxford English Dictionary? Certo che no, e anzi direi che l'espansione del mio vocabolario abbia raggiunto negli ultimi anni una sorta di hiatus, per cui non ho imparato innumerevoli vocaboli nuovi (seppur qualche aggiunta ci sia stata).
Sono (ero!) forse io l'ultima degli sfigati in inglese? Nemmeno questo è corretto: nel mio momento di conoscenza massima della lingua, vantavo una certa fluidità, un discreto carnet di sinonimi e sfumature e quasi un accenno di accento di Londra. Certo, abitarci aiutava.
Si può quindi dire che in media il mio livello di inglese sia più alto rispetto a quello delle persone che mi stanno intorno, e questo ne sta determinando, paradossalmente, un peggioramento. Uno dei requisiti fondamentali della comunicazione, infatti, è l'efficacia: risulta quindi inutile, se non addirittura controproducente, utilizzare termini più corretti ma meno conosciuti avendo un'audience il cui livello di inglese è inferiore al proprio. All'inizio lo facevo, e di fronte all'espressione basita (F4, cit.) di chi mi stava di fronte mi toccava capire quale fosse l'inghippo e poi ripetere la frase modificando l'arcana parola con una più generica ma comprensibile; dopo un po' si capisce l'andazzo e non ci si prova più. Questo però determina il fatto che io mi stia abituando a parlare un inglese meno ricercato di quanto potrei, e della differenza mi accorgo quando vado in Inghilterra.

L'italiano. Whatsapp è meraviglioso per chi è lontano da amici e parenti perché permette di rimanere in costante contatto. D'altronde allo stesso tempo riduce la necessità e le occasioni in cui si parla a voce (o colma il fatto che queste occasioni non ci sarebbero comunque, in alcuni casi). Il mio interlocutore principale è G., il quale come me è nella posizione di parlare, leggere e scrivere una lingua straniera per la maggior parte della giornata. Capita quindi spesso che non ci sovvenga il termine corretto in italiano perché nella testa campeggia quello inglese o francese: all'inizio eravamo molto più disciplinati, commentandoci a vicenda con occhiatacce e sberleffi quando non riuscivamo a richiamare la parola; ora stiamo un po' cedendo, e capita più spesso che un eventuale inglesismo scorra notato ma non ripreso.
D'altra parte, il continuo confronto di lingua e cultura che avviene giornalmente con E.A., santa compagna di ufficio e di interscambio belga-italiano, fa sì che rifletta spesso sul significato e il contesto di alcune parole italiane, sui loro sinonimi e sfumature, per cui il fenomeno di "annacquamento" è leggermente limitato.

Paradossalmente, quindi, è il francese l'unica lingua che non sta peggiorando.
"Ma va' là!, che esagerazione! E allora i post che scrivi in italiano?".
Tra la scrittura e il parlato esiste una profondissima differenza: non si scrive quasi mai "in diretta". E meno male, sennò col cavolo che sarei riuscita a tradurre "recollect". Mi ci sono voluti solo cinque minuti, insomma.

domenica 24 settembre 2017

Les Fêtes de Wallonie, ovvero quella volta in cui i Belgi mi chiesero "ma sei proprio sicura di voler restare nel weekend?".

Lo scorso weekend* si sono celebrate (attenzione perché mi è plurale!) les Fêtes de Wallonie: come ogni anno, a metà settembre Namur si trasforma completamente per celebrare lo spirito e le tradizioni Walloni, richiamando persone da tutta la provincia (e oltre!).
Data questa nuova veste di Namur, mi sono venuti a trovare amici da tre Paesi (ma quanto siamo internazionali!) che avevano già visto la città e per cui questo twist sarebbe potuto essere interessante.
Anche dormire in sei in trentacinque metri quadrati circa è stato molto interessante.
(Sul dividere un unico bagno invece ormai siamo un gruppo già ampiamente collaudato, no problema.)

Oltre all'esorbitante quantità di gente che si trova in giro, la differenza fondamentale per la città la fanno gli stand che invadono le strade, e che si dividono principalmente in stand di musica dal vivo o dj set, di cibo e di peket.

Sulla qualità della musica non voglio esprimere giudizi, e certamente per alcuni dei gruppi dal vivo v'è una componente di tradizione e di cultura popolare che non mi appartiene e che non so identificare, rendendomi impossibile apprezzarne la presenza. Per altri, e in generale per quasi tutti i dj set, semplicemente non voglio fare l'antipatica e non avendo nulla di carino da scrivere, mi astengo...
È comunque molto apprezzabile lo sforzo di organizzazione che ha fatto sì ci fosse sempre un sottofondo musicale, e trovo molto bello che venga data la possibilità di esibirsi a così tanti gruppi. La sera vengono organizzati dei concerti veri e propri, con gruppi (pur sempre locali) che attraggono migliaia di persone.

Gli stand a tema culinario raccontano per lo più le tradizioni wallone e le produzioni locali del territorio: oltre a quelli in giro per le strade, nel giardino del municipio ve n'erano diversi posti in piccole casette di legno, tant'è che coi cappotti e il cielo grigio sembrava quasi un mercatino di Natale. Se avessi davvero lo spirito di cronaca in me, avrei fatto mille foto suggestive, ma siccome ci siamo andati avendo una fame da lupi, ci siamo lanciati alla ricerca del nostro pranzo: alla fine ho optato per un panino con hamburger di manzo, foie gras, affettato d'anatra, insalatina e una meravigliosa salsa di cipolle. Di questo abbiamo una rara immagine, ma solo perché dovevo intrattenermi mentre aspettavo con la bava l'acquolina in bocca.


Questa è stata la prima scelta, s'intende. Poi, visto che les Fêtes de Wallonie ci sono una volta sola all'anno, come rinforzino è stato aggiunto un altro panino con formaggio di capra prodotto dall'omino dello stand, pancetta, vinaigrette con aceto balsamico. Ah, e sempre un po' di insalatina, ché mangiare leggero è importante.
Inutile a dirlo, birre a profusione.

Per le strade, invece, si trovava un po' di tutto, dal simpaticone a base di maiale,
"Der majale n' se butta via gnente" suona meglio, diciamocelo.
ai mega pentoloni di tartiflette (patate, pancetta, cipolle e rebochlon, un formaggio tipico),
Mi si è impennato il colesterolo.

fino ad arrivare a numerosi stand di dolci, principalmente divisi in due categorie: gaufre (quelli che noi chiamiamo waffle) e... churros. Devo dire che ancora non mi è estremamente chiaro il perché i churros siano così tanto apprezzati, ma soprattutto che ci facessero in una manifestazione che celebra le tradizioni wallone, ma tant'è...

Protagonista indiscusso de les Fêtes de Wallonie è pero senza dubbio il peket. Si tratta di un liquore a base di ginepro che viene aromatizzato aggiungendoci sciroppi di ogni tipo: tipicamente non se ne acquista uno solo, ma viene venduto in "vassoi" con formule del tipo 6+1 gratis (ad un costo variabile, ma intorno ai 6-7 euro). Da notare come una delle varianti si chiami couilles de singe (letteralmente, "coglioni di scimmia"), a quanto pare perché l'aromatizzazione richiama una caramella così denominata: allora!, ora si spiega tutto...
Esteticamente grazioso, in fondo.
È uno di quei non rari casi in Belgio in cui non conta la qualità, bensì la quantità: non essendo molto alcolico, è necessario berne molti per cominciare a sentirne gli effetti e raggiungere quel così disperatamente ricercato stato di ubriachezza molesta.
E qui arriviamo al tasto dolente.
Una delle prime cose che si notano trasferendosi da queste parti è che i belgi, e gli studenti in particolare, non conoscono i propri limiti nel bere alcolici: o meglio, o se li scordano ogni volta o li ignorano completamente. È scena comune infatti il venerdì e il sabato (ma anche la domenica, il lunedì, il martedì...) sera vedere gente completamente ubriaca fuori dai pub o inginocchiata per strada a vomitare. E quando ci sono le feste universitarie, si capisce quanto una festa sia stata "di successo" a seconda della quantità di macchie di vomito e dell'intensità dell'odore di urina che si trovano per strada la mattina dopo.
Ah già, perché un'altra caratteristica dei Belgi è che pisciano letteralmente in mezzo alla strada senza alcun tipo di ritegno. Principalmente gli uomini, per ovvie facilitazioni anatomiche, ma anche le donne non si fanno problemi se trovano due macchine tra cui accucciarsi. Ma anche se non le trovano.
Questa mancanza di autocontrollo in situazioni come les Fêtes de Wallonie si manifesta ai suoi più alti livelli, soprattutto perché, e non è un fattore da sottovalutare, solitamente si svolgono il weekend successivo alla rentrée, l'inizio dell'anno accademico: questo implica che molti studenti, invece di tornare a casa per il weekend come normalmente succede, restano in città per festeggiare "col botto". E molti di loro sono al primo anno, per la prima volta fuori di casa, con un sacco di ghiaccio da rompere con i futuri compagni di corso. Il coraggio liquido è così disponibile, e così socialmente accettato...
Abbiamo visto scene incredibili: gente ubriaca ad orari improbabili, seduta sui marciapiedi a piangere, sdraiata in mezzo alla strada priva di sensi. Il tutto contornato da decine di persone che fanno pipì in qualunque angolo (e non), indipendentemente dal fatto che siano alla luce o al buio, vicino ad altri o lontano, cosicché quell'appiccicaticcio che senti sotto la suola delle scarpe sai perfettamente di cosa è un miscuglio ma tenti di dimenticartelo ad ogni passo.

(C'è da dire che la mattina dopo le strade sono intonse: il modo in cui tengono a ristabilire la pulizia della città dopo qualunque evento, che sia una festa o il mercato rionale, è commovente.)

Abbiamo visto anche tanta gente divertirsi genuinamente, tante famiglie che passeggiavano vivendo la città in fermento, concerti divertenti e molto gradevoli. Fino a poco dopo l'ora di cena, l'atmosfera è molto carina, e almeno una volta nella vita secondo me vale la pena di fare un giro.
Soprattutto, per la prima volta in molto tempo abbiamo assistito ad uno spettacolo di fuochi d'artificio davvero bello e con cose nuove, di quelle che ti fanno dire "Wow!" e poi restare con la bocca aperta. Fornisco qualche diapositiva (avevamo già ampiamente mangiato, mi sono potuta concentrare sullo scattare delle foto):


Quella sagoma squadrata che si intravede è il profilo della Citadelle.





In conclusione, sono stata contenta di esserci stata questa volta (l'anno scorso ero in Inghilterra), ma vedo probabile che io vada lontano durante la prossima edizione.
Magari dopo aver preso al volo un panino con hamburger, foie gras, anatra, cipolle. E insalatina.


* In realtà gli eventi per les Fêtes de Wallonie si protraggono per una decina di giorni, ma il culmine è durante il secondo weekend.

venerdì 15 settembre 2017

Scarpe da ginnastica e femminismo.

Eppure io non credevo potesse essere un'operazione così complicata.
In fondo, dovevo solo comprare un paio di scarpe da corsa.

Accade che siccome l'anno inizia per davvero a Settembre, mica a Gennaio (nonostante ciò che vogliono sempre farci credere), ci sia il solito buon proposito di muoversi un po' di più: tra l'altro esiste un centro sportivo dell'università, la cui tessera annuale costa agli studenti la bellezza di 35 euro, per cui non approfittarne sarebbe davvero un peccato.
La situazione che mi si presenta ma che non credo (ancora) sarebbe poi diventata un problema è che le scarpe da ginnastica che ho portato quando mi sono trasferita, già provate da anni di utilizzo, mi hanno abbandonata l'inverno scorso.
Tocca ricomprarle. Scarpe da ginnastica, nere, è praticamente già fatta.
Scartata l'idea di acquistarle online (preferisco provarle) e di andare da Decathlon (decisamente fuori mano), mi faccio un giro nel più grande negozio di sport di Namur. Entro, scendo al piano inferiore, cerco la parete dedicata alle scarpe da corsa da donna e appena alzo lo sguardo mi prende a momenti un attacco epilettico.

Rosa. Rosa sparato OVUNQUE. Non esiste un modello da donna che non abbia del rosa shocking: si va dalla delicata versione nera e rosa alla più spumeggiante celeste evidenziatore e verde acido. Col rosa shocking, s'intende. Sono uscita di corsa (ma senza le apposite scarpe), un po' traumatizzata.
Una cosa simile era già successa nello stesso negozio (che fa parte di una grossa catena) con il costume per la piscina: lì però è stata in parte colpa mia, perché essendo in periodo di saldi mi sono rifiutata di comprarne uno a prezzo intero, cosa che mi avrebbe permesso di rifuggire l'orrido colore. Pecunia non olet quindi non vedo perché gettarne via per delle sciocchezzuole. Che poi, in acqua, ma chi lo vede? Comunque.

Io il rosa lo detesto. Bene il viola, ancora ancora qualche sfumatura di fucsia, ma il rosa che è proprio rosa lo detesto. Detesto lui e l'associazione forzata col genere femminile che ci viene imposta dal gusto "sociale", con quella dicotomia inflessibile del blu per i maschi e il rosa per le femmine.
Anche da piccola non ho avuto la fase del rosa (non certo per motivi femministi, almeno consci), non mi è proprio mai piaciuto. Di conseguenza la sua imposizione, manifestata dal non avere scelta, mi infastidisce enormemente. Vorrei poter essere libera di scegliere, sempre e comunque, se e come manifestare il mio appartenere (e riconoscermi) al genere femminile.

È incredibile come, ad avere le antenne rizzate verso un determinato argomento, appaiano nella vita quotidiana e senza andarli particolarmente a cercare spunti di riflessione a tal proposito. Il dove, il come il quando e il chi sarebbero troppi e forse poco interessanti. Ma alla fine il succo della questione è questo: vorrei potessimo essere libere di scegliere, sempre e comunque, se e come manifestare il nostro appartenere e riconoscerci nel genere femminile.
Si, l'ho appena scritta la stessa frase, ma per me è cruciale: per spiegarvi perché, facciamo un passo indietro. Perché lo squilibrio è da entrambe le parti.

Essendo una giovine (?) donna (?) ancora nella fase di autodeterminazione nel mondo, la questione femminista è centrale nel mio approcciarmi alle cose. Già "femminista" è un termine che poco apprezzo, nel suo contrapporsi a "maschilista": se il maschilismo ritiene infatti l'uomo superiore alla donna, il femminismo dovrebbe porsi come obiettivo quello di rendere agli occhi della società uomini e donne come pari. Non uguali, perché siamo diversi in mille e uno modi, ma comunque e sempre pari. Però per semplicità lasciate che io continui ad usare femminista e femminismo, avendo questi significati in mente.
All'inizio, dovendo smuovere un sistema rigido ed immutabile, il femminismo ha dovuto tendere a degli estremismi. Si bruciavano i reggiseni, non ci si depilava e si rifiutava la tipica immagine della donna quale angelo del focolare, devota alla gestione della casa e alla crescita dei figli. Mi sembra normale: più forte è il vincolo, più violento deve essere il distaccarsene.*
Però poi i tempi sono cambiati, le cose si sono evolute: c'è ancora molta strada da fare, ovviamente, lunga è la via per la parità, ma la situazione è andata migliorando. Mi sembra però che il femminismo, e più certamente l'impressione che ne ha la società, non siano evoluti di pari passo.
C'è ancora quell'idea che una femminista vvvera, una donna indipendente debba ricusare qualunque ruolo, stile e convenzione tradizionalmente associati alle donne. E qui ritorna la frase sull'essere libere di scegliere, sempre e comunque.
Per me questo tipo di scelta non è concepibile e penso sentirei di star buttando la mia vita, ma se una donna nel pieno delle sue capacità mentali e in totale indipendenza (quindi non perché è ciò che ci si aspetta lei faccia, non perché è il suo ruolo predestinato) decidesse di restare a casa e non lavorare per dedicarsi al marito (o alla moglie!) e ai figli, chi avrebbe il diritto di giudicarla?
Se una donna che lavora, che ne so, nel mondo della finanza decidesse di vestirsi con abiti a fiori (appropriati, ma a fiori) rinunciando a quella pratica di mascolinizzazione che in certi ambienti è ormai la norma, perché dovrebbe essere intaccato il suo valore professionale agli occhi degli altri?
Etc, etc, etc. Mi si permetta di lasciare questa parte un po' monca, avendo dato giusto l'idea, perché avevo continuato a scrivere ma davvero non avrei finito più.

Quindi insomma, ero lì che pensavo che quelle scarpe rosa sarebbero dovute sparire dalla faccia della Terra, quando ho realizzato di aver scritto "incoerenza" dappertutto. Io il rosa lo detesto, ma se a qualcuna piace perché dovrebbe rinunciarci in nome della bandiera femminista? Perché dovremmo auto-imporci dei limiti in nome dello sforzo di eliminare quelli che ci vengono appioppati tutti i giorni da sempre?

Allora evviva le mensole di scarpe da corsa in tutte le declinazioni del rosa.
Ma che se ne trovino di rosse, verdi e blu, con Hello Kitty ma anche con i Pokemon, col fiocchetto ma anche senza nulla.

E per carità del Cielo, a me servono semplicemente nere.



PS: Secoli di mentalità non si cancellano in pochi decenni: il maschilismo si nasconde subdolamente anche nella lingua, e in tradizioni che ci sembrano assolutamente innocue. Due esempi su cui non mi dilungherò (ché altrimenti, più che un post diventa un libro), ma approfondirò volentieri qualora interessasse: espressioni come "quella è una donna con le palle" e il lancio del bouquet della sposa ai matrimoni.

PPS: Esistono certamente migliaia di paia di scarpe da corsa da donna "normali". Mi ha fatto però riflettere come non siano immediatamente accessibili.

* Una saliente parentesi. Consiglio spassionatamente la lettura di "Cara Ijeawele: Quindici consigli per crescere una bambina femminista", di Chimamanda Ngozi Adichie (https://www.amazon.it/Cara-Ijeawele-Quindici-femminista-Frontiere-ebook/dp/B06XDLRXQB). Affronta in modo pesato e serio la questione femminista, ma senza dogmi e in modo scorrevole. Un passo che ho evidenziato e che secondo me è un ottimo strumento per analizzare gesti e parole nella vita di tutti i giorni recita:
Spiegale che se critichi una certa cosa X nelle donne, ma non critichi la stessa cosa X negli uomini, allora non hai un problema con quella cosa, hai un problema con le donne.

Provate come esercizio a pensare ad atteggiamenti mal visti se adottati da una donna ma assolutamente normali se adottati da un uomo. Vi accorgerete che sarà come l'inizio di una valanga, una volta trovato il primo ve ne verranno in mente a migliaia: quanto è intrinseco in noi il concetto della donna quale presenza eterea e delicata?
Tra l'altro compie oggi 40 anni, ma si tratta solo di una fortuitissima coincidenza scoperta assolutamente per caso.


martedì 11 luglio 2017

Dov'eravamo io e la mia voglia di scrivere?

Quanti si stavano chiedendo dove fossi finita?

...

Vabbè, per i timidoni che avrebbero voluto alzare la mano e che non l'hanno fatto, sappiate che sto bene: è solo che sono stata un po' impegnata, l'esame di conferma di metà (beh, più o meno) dottorato incombeva e io non sono nota per essere una di quelle che si anticipa il lavoro. Magari! Quindi ecco, ho avuto un po' da fare.
Poi manca sempre l'ispirazione, quella cosa che ti fa dire "si, questa cosa a qualcuno potrebbe interessare". Già manca di solito, ma in questo periodo in particolar modo.

Che poi ne avrei di post in mente da scrivere, eh! Solo che a non cogliere l'attimo succede che passano in secondo piano, che quella frase che avevi pensato fosse perfetta ti sfugge e non te la ricordi più, che sai che dovresti impegnartici particolarmente e non ti va.
Per dire, ho in testa un lungo post sulle differenze tra il sistema universitario (forse in generale scolastico) belga e quello italiano da inizio anno. Accademico, s'intende. Ormai aspetterò settembre a questo punto.

Che altro?
Namur si è più o meno bruscamente svuotata; essendo una città universitaria, risente ovviamente moltissimo delle vacanze degli studenti, che a inizio luglio se ne sono tornati allegramente a casa. Gli altri tendenzialmente vanno in ferie in questo periodo: anche il Dipartimento perde pezzi, alcuni di noi stoici restano fino al 21, che qui in Belgio è festa nazionale e sancisce senza scampo l'inizio del deserto, ma molti sono già in giro.

Fossi una blogger d'assalto avrei scritto un post la mattina dell'incendio alla Grenfell Tower, il cui fumo ho visto dalla stazione di Blackfriars, tanto per cavalcare l'onda emotiva. Avrei pubblicato foto di Londra con l'Estate quella vera, i parchi pieni di gente al sole e i bimbi a correre senza temere di prendersi un accidente per il sudore. Avrei narrato la mia stanchezza e la preparazione all'esame, a cui non sono arrivata con ansia ma quasi con trepidazione: ormai è chiaro, io mi diverto un sacco a fare presentazioni. Avrei scritto in anticipo e programmato la pubblicazione di decine di post, che invece forse vedranno la luce, forse no. Ma blogger d'assalto non sono. Ma neanche blogger, per cui mi posso permettere di avere delle riserve morali su certi argomenti e conseguenti hiatus di un mese e mezzo.

Però insomma, per i timidoni. È tutto ok.


lunedì 29 maggio 2017

Amarcord: About streets, bridges and clocks.


È stato un weekend molto lungo in Belgio, cominciato giovedì: ne ho approfittato per rivedere, finalmente, K. e M., dopo quattro anni dall'ultima volta che ci siamo viste tutte insieme. E sono ripassata per certi posti, e alcune cose sono sempre uguali, altre completamente diverse, un po' come capita di solito quando passano degli anni che sembrano ere geologiche.
Il blog nacque appena mi trasferii a Londra e sebbene ad un certo punto sia partito alla deriva, qualche cosa che mi fa piacere rileggere c'è: allora ogni tanto, aspettatevi un po' di amarcord.


[Originally written: 16/09/12]

I was walking towards my bus station, after work, and I was along my street.
My street has nothing which is particular; it is not even so nice, right now, because of some works that are doing on a building.
My street is behind the Lyceum Theatre, so nobody cares about it, because the interesting part is at the opposite side.
I can't even remember the exact name of my street.

But my street is MY street.
It is the one that I walked through the last four months, almost every day.
It saw me at half past six in the morning, in both directions: going to work or coming back home.
It is the one that I know most.
And it is going to be one of those that I will miss most.

You understand that you really lived in one place when you know that you are going to miss things and places that most of the people do not care about, or do not even know; and you will miss them because they were yours, they were there when you were looking around to find something familiar, something that could calm you down when your mind was running too fast, when you felt a little bit lost.
They were those that made you feel home, whenever you were not sure of being in the right place of the world.

So I am not going to miss the noble, classic clock of the Big Ben, but the vey simple one of the Shell Mex House: the one that I look at every day, most of the times thinking "I am too early. Again.", sometimes "What the hell, I have FIVE minutes to go to work".
I am not going to miss the London Bridge, or the (horrible) famous Tower Bridge, but the Waterloo one, my bridge. That bridge that I decided to cross on foot when I was overthinking, or when I had a cold beer in my hand and just wanted to relax, or when we were going back home after a fun night and we said "Let's cross the river on foot!".
[And, let me stress this: there is the best view of London, from the Waterloo bridge.]
I am not going to miss the shopping Oxford Street, but I am going to miss my street, which is so important that I do not even need a name, for it.

mercoledì 24 maggio 2017

Un post (letteralmente) pieno di comfort.

Comfort zone: quell'insieme di luoghi, persone e situazioni in cui ci sentiamo perfettamente a nostro agio. Può essere habitat naturale, rifugio o gabbia: è facile limitarsi a fare ciò di cui si è sicuri, ed è altrettanto facile precludersi delle esperienze o delle opportunità per paura di affrontare l'ignoto o il temuto. Si rischia allora di restare lì, nel proprio orticello, quando magari dall'altra parte c'è un intero mondo e attraversare la staccionata non sarebbe poi così difficile: se ci si provasse si scoprirebbe che a volte c'è addirittura un comodissimo cancello e non si deve manco fare la fatica di saltare a mo' di Olio Cuore.

Dicono che "La magia comincia al di là della tua comfort zone", ma non so se sia proprio sempre così; se da un lato è vero che per fare molte cose bellissime nella vita bisogna uscirne e affrontare un iniziale disagio, dall'altro l'idea che uno debba necessariamente discostarsi dalla propria quotidianità (fisica o mentale che sia) per trovare la "vita vera" è un po' limitata: la maggior parte delle volte è probabilmente così, ma mano a mano che divento più vecch saggia la lista degli assoluti con cui mi trovo d'accordo si riduce sempre più.

A questa cosa della comfort zone pensavo ieri, mentre alla fine di una giornata tranquilla ma lunga mi sono fatta forza e sono uscita di casa per andare in un posto in cui sapevo avrei dovuto parlare molto francese: di per sé non sarebbe un problema, non fosse che la mia capacità linguistica è inversamente proporzionale alla mia stanchezza. Questo implica che se la mattina sembro quasi un essere umano con qualche mese di francese alle spalle, a fine giornata mi trasformo in un gibbone sgrammaticato e titubante. E no, se ve lo steste chiedendo, non è una cosa simpatica.
In un momento di lucidità (o di bipolarismo, dipende dai punti di vista), per risolvere la situazione ho lanciato delle noccioline fuori dalla porta, il gibbone si è precipitato fuori di casa e la parte razionale ha chiuso la porta. E quindi niente, siamo andati tutti.

Personalità zoologiche multiple a parte, l'episodio mi ha fatto ruzzolare giù per la strada della memoria e, diamine!, sono anni che esco dalla comfort zone. In modi più o meno ovvi, più o meno conclamati, più o meno dichiarati, ma sono sempre lì, a cercare di spostare il limite un po' più in là.
Quello su cui i fautori della magia che comincia bla bla bla non si soffermano, però, è cosa succede dopo: magari sbaglio io, eh!, ma ho l'impressione che si parta dal presupposto che una volta messo un piede fuori, automaticamente si ridisegnino i confini e la comfort zone si adatti.
Mica vero.
Spesso succede, ed è una sensazione fantastica: si superano dei limiti, immaginari o reali che siano, e ci si rende conto che lo si può fare, che ciò che pensavamo impossibile per noi non lo è, e allora via, si apre un nuovo pezzo di mondo. Un po' come quando la sottoscritta, a cui in genere non piace il pesce, ha assaggiato con timore per la prima volta il sushi: amore a primo boccone, datemene ancora e per sempre, sono disposta a morirne (ok, l'esempio non è dei più edificanti ma rende l'idea).
Altre volte invece no. Sei lì, di fronte ad un certo tipo di esperienza e con passo deciso ti incammini, e per un po' la comfort zone sembra adattarsi; poi però ti accorgi che si, il limite lo stai spostando, ma funziona come un elastico: ti lascia andare per un po', ma tirandoti sempre indietro e tornando al suo posto appena lasci andare la presa. E allora ogni volta che vai in quella direzione è un po' come se fosse la prima, sembra di non fare progressi e di non cambiare lo stato delle cose. È frustrante, mette a disagio (per definizione), e dopo qualche volte trasmette un senso di sconfitta e di ineluttabilità, perché sai che indipendentemente dall'impegno che ci metti, quel dannato elastico tornerà sempre indietro.
Forse vuol dire che semplicemente non fa per noi: "la magia comincia al di là della tua comfort zone" è tremendamente semplicistico, perché non è detto che una cosa per cui ci sentiamo inizialmente a disagio una volta vissuta debba necessariamente trasformarsi in qualcosa di piacevole. È chiaramente fuori dalla mia comfort zone l'andare in giro nuda per strada, ma non è che se lo facessi una volta, allora andrebbe poi sempre bene: sarei solo ancora più sicura che non è una cosa adatta a me (e alla decenza pubblica e al codice penale o civile, se è per questo).
O forse è solo dovuto al fatto che affrontiamo situazioni a cui siamo per nostra natura più sensibili: le nostre difese sono più tenaci perché ne abbiamo più timore. Se non vi è niente di intrinsecamente negativo (come può esserlo l'andare in giro nuda per strada), forse vale la pena sforzarsi ancora un po', incamminarsi ancora una volta col passo un po' più sicuro della precedente, testare ancora la resistenza. Arriverà poi un momento in cui si riuscirà o ci si arrenderà, è probabile che la questione si riduca ad un discorso di testardaggine e sforzo mentale: forse vale la pena provare in ogni caso, può essere che il processo in sé sia una lezione sufficiente.
In fondo, da portatrice sana di capelli ingombranti ho sperimentato una grande verità: nessun elastico è per sempre.

martedì 16 maggio 2017

I Belgi fanno cose: guidare.

[ Disclaimer: "I Belgi fanno cose" è una sorta di rubrica a cui sto pensando da un po' di tempo, ed infine mi sono decisa a cominciare. Tutti i post relativi, compreso il seguente, sono ad alto tasso di generalizzazione. Si tratta di un processo deduttivo a partire dal campione poco statistico che riesco ad osservare: quindi non solo "i Namurensi" sarebbe già poco esatto, ma "i Belgi" è davvero un'enorme generalizzare. Sappiatelo. Io lo so, ma me ne sono già ampiamente fatta una ragione e lo scriverò comunque. ]

I Belgi hanno un rapporto estremamente particolare con le automobili, sia da un punto di vista meccanico-pratico che concettuale: in quanto guidatrice italiana, nonché esponente di uno stile di guida "sportivo" e "nervoso", non riesco a concepire nessuna delle due cose, che sono ancora tuttora fonte di incredulità.
Una diapositiva di una mia tranquilla giornata al volante.
A quanto pare, i Belgi non hanno la minima percezione della macchina che guidano, e questo lo si intuisce da tre indizi chiave:
  1. l'evidente difficoltà in cui si trovano nel momento in cui sulla strada si affaccia il temibile nemico: l'ostacolo inaspettato. Sia esso un camioncino abbarbicato sul marciapiede alla meno peggio su una strada ad una corsia o un cantiere stradale su un ampia strada principale, non importa: il Belga, non vedendo più chiara davanti a sé la via, mediamente entra nel panico. Dapprima si ferma, aspettando. Aspettando cosa, non è ben chiaro, forse esiste una task force specializzata di cui io non sono a conoscenza, che in casi simili sbuca dal cespuglio e rimuove l'impedimento, non so. Due le cose: o il servizio fa schifo (mai visti all'opera) o il Belga sta aspettando inutilmente. Io ho visto succedere solo la seconda, per cui l'autista si arrende dopo un po' all'idea di dover attivamente fare qualcosa e intuisce che può utilizzare il volante per cercare di oltrepassare l'ostacolo.
    Lì capisci come tutti siano convinti di essere alla guida del Titanic. Manovre fatte a 2 km/h avendo un margine di un metro per parte, controllando venti volte tutti gli specchietti a disposizione (compreso quello da borsa, se applicabile) e con qualche pausa nel mezzo per riprendersi dallo sforzo mentale. Non hanno la minima idea, in genere, di dove finisca la propria macchina e di quali spostamenti possano permettersi di fare.
    Il fatto che dalla coda di macchine che nel frattempo si sono accumulate non risuoni neanche un clacson è dovuto all'essere coscienti che la difficoltà sarà condivisa e dal forsennato rispetto delle regole (vedi più in basso).
  2. l'assoluta creatività nel parcheggiare. Ho visto cose che voi umani... I peggiori parcheggi di cui abbia memoria, messi in scena indistintamente da uomini, donne, giovani e anziani. Rarissime le eccezioni, ma d'altronde se non sai dove finisce l'aria e comincia la tua auto, è un po' come cucinare senza avere il senso del gusto, come giocare ad un gioco senza conoscerne le regole, come trasferirsi in Vallonia senza sapere il francese: cerchi di destreggiarti grazie al caso.
  3. le incredibili sinfonie dei motori. Se c'è una cosa che mi fa soffrire terribilmente, fisicamente e non, è sentire il rumore di un motore con i giri troppo alti: non capisco mai cosa ci sia di così tanto difficile nel cambiare marcia, è davvero fuori da qualunque mio schema di ragionamento. Oltre al fatto che la sgradevole sensazione è quasi la stessa di quella delle unghie sulla lavagna. Ma loro sembrano non accorgersene o sono immuni. O non sanno come mettere fine a tale agonia, ma mi rifiuto di crederlo.
A questi problemi di percezione, che evidentemente costituiscono da sé una grossa limitazione per una corretta mobilità a bordo di un'automobile, si aggiunge anche una religiosissima, al limite del culto, osservanza del codice stradale.
"Ci stai forse dicendo che dovremmo essere tutti dei pirati della strada?"
Per quanto io tenda ad avere problemi con i limiti di velocità no, non sto propagandando di fare quel che si vuole, ma di aggiungere alla conoscenza e al rispetto delle norme anche un briciolo di buon senso. Ma proseguiamo con un paio di esempi.

Immissione in una rotonda. In Belgio le rotonde sono tutte "alla francese", per cui ha la precedenza chi sta già percorrendo la rotonda: se questo vi suona ovvio, sappiate che l'ultima volta che ho controllato (comunque, non troppo tempo fa) il codice stradale italiano era piuttosto vago a riguardo, e in teoria, in mancanza di cartello esplicito, le strade che si immettono, provenendo da destra, avevano diritto di precedenza. Avrei potuto controllare fosse ancora così ma sono pigra.
Quindi, dicevamo, l'immissione.
A priori quindi la precedenza l'hanno coloro che sono già all'interno della rotonda: per me questo significa che se penso di riuscire ad immettermi senza costringere altri a eseguire manovre o anche solo rallentare, lo faccio. Certo, questo significa conoscere la propria macchina e saper valutare (più o meno inconsapevolmente) le velocità relative.
Loro no. Loro la precedenza la danno, a prescindere. Potrebbe esserci un bradipo dalla parte opposta della rotonda, appena immesso, e loro aspetterebbero quella manciata di ore per capire quali sono le sue intenzioni. E poi, forse, deciderebbero il da farsi. Sempre che non appaia un semovente camaleonte da qualche entrata precedente, ovviamente.

I pedoni. Ora, qui il buon senso ha ancora più importanza. Sono forse io quella che quando è alla guida si ferma ad ogni striscia pedonale appena si affaccia un timido pedone? No. Si. Dipende.
Se dallo specchietto retrovisore vedo che dietro a me non c'è nessuno, il pedone può aspettare quei cinque secondi in più che a lui non cambieranno la vita, mentre per me significherebbero dover frenare, aspettare, ripartire. E lo dico anche da pedona, eh!, mi sembra veramente inutile quando qualcuno si ferma per farmi attraversare la strada e dietro di lui c'è la landa desolata. Se invece dietro di me ci sono delle macchine e non appare ovvio quando apparirà uno spazio per il povero pedone, allora mi fermo e mi assicuro che riesca ad attraversare senza dover aspettare delle ere geologiche. Buon senso.
Qui il pedone è sacro. Stupidamente sacro. Ho fatto fermare delle macchine semplicemente chiaccherando con un amico, da fermi, a qualche metro dalle strisce: sia mai che ci prendesse lo sghiribizzo di attraversare all'improvviso, eh! Conosco persone che hanno attraversato la strada anche se non dovevano, per il senso di colpa di aver fatto fermare involontariamente delle macchine. È talmente insito in loro il dovere di fermarsi, che non contemplano minimamente altre possibilità. Una volta (ma è solo uno di tanti esempi) ero sul bordo del marciapiede, una macchina stava arrivando a velocità abbastanza sostenuta; se avesse cominciato a rallentare quando mi ha vista (e so che mi ha vista con abbondanti metri di anticipo) avrei tranquillamente avuto tutto il tempo di attraversare e arrivare dall'altra parte senza dover aspettare e senza bisogno che si fermasse: ma lui no, lui si sarebbe per forza dovuto fermare. Tuoni fulmini e saette se non si fosse fermato! Allora ha addirittura accelerato per arrivare prima al momento dell'arresto. Lui ha inchiodato, io ho dovuto aspettare, ci abbiamo perso tutti. Ma d'altronde non avrebbe potuto non farlo, no? Il dio del codice stradale avrebbe scatenato la sua possente ira su di lui. L'autocombustione della patente, l'undicesima piaga.
Sono arrivata al punto che quando mi accorgo di stare per arrivare sul ciglio della strada in una situazione "a rischio", tipo una macchina che sopraggiunge in solitaria e che si fermerebbe inutilmente, rallento, in modo da essere sulle strisce dopo il passaggio della macchina stessa.

Quando mi chiedono perché non ho la macchina e nessuna intenzione di averne una qui in Belgio rispondo sempre che è perché non mi serve. Ciò è ovviamente vero, ma sotto sotto penso spesso che non sono programmata per guidare così: finirei probabilmente sulla stampa locale come "la solita italiana" attaccata al clacson.

Ps: Clacson che ovviamente non si suona se non in caso di pericolo imminente, così come recita, ovviamente, il Sacro Codice (stradale).

sabato 6 maggio 2017

Il lusso nel viaggiare.

Se qualche anno fa qualcuno mi avesse detto che avrei vissuto all'estero, viaggiato abbastanza spesso per vedere posti nuovi, studiato per il Dottorato, avuto una relazione a distanza e per questo viaggiato molto spesso (ma senza posti nuovi), imparato una nuova lingua (ok, ci stiamo ancora un po' lavorando), etc etc, sarei stata sbalordita. E poi molto contenta ma incredula, perché ad un certo punto la mia vita stava prendendo tutta un'altra piega e comunque non avrei mai considerato certe possibilità. Però l'idea di essere sempre pronta a partire con lo zaino in spalla ha sempre avuto un certo fascino, per cui per quanto implausibile allora, mi ci sarei potuta immaginare tranquillamente.
Poi le cose sono molto cambiate, io sono molto cambiata, tutto è molto cambiato, la coda è molto cambi* ed eccomi qua, a farlo davvero.

Quella che la me di allora non avrebbe sicuramente immaginato è l'aspetto pratico di cosa voglia dire davvero il partire spesso con lo zaino in spalla. E una delle implicazioni è l'impegno in termini di tempo, energie e denaro. L'oculato uso di quest'ultimo, in particolare, determina moltissimo la qualità del viaggio (ovvietà per tutti quest'oggi!) e d'altronde per come sono stata cresciuta e per una buona manciata di senso pratico, tendo a scegliere l'opzione con meno fronzoli e più risparmio possibili, anche quando potrei permettermi di spendere un qualcosa in più. L'idea di base è che se mi spostassi un numero limitato di volte, quei venti o trenta euro in più non farebbero molto la differenza, ma parlando di decine di viaggi all'anno, il risparmio alla fine è considerevole.
Questo tipo di ragionamento si applica in particolar modo quando sono sul punto di prenotare un aereo: che ve lo dico a fa', Ryanair è una filosofia di vita**.
L'aspetto positivo di Ryanair è ovviamente il costo contenuto, che permette di muoversi a volte a prezzi ridicoli: l'anno scorso per Pasqua sono tornata a casa con 35 euro, a/r. Trentacinque euro.
L'aspetto negativo è... principalmente tutto il resto. Neanche più la puntualità è una garanzia, tra me e G. abbiamo collezionato ore di ritardo che se fosse una raccolta punti avremmo già ricevuto il set di pentole (aggiungendo, ovviamente, un piccolo contributo di 49,99 euro).
Il volo in sé, per quanto mi riguarda, è tremendo. Io ho la fortuna di addormentarmi facilmente in aereo, soprattutto ma non solo quando sono sul lato finestrino, e questo mi permette di evitare: vendite di panini caldi e patatine fritte (...), bibite fresche e snack; pubblicità a prodotti del duty free che eccezionalmente per oggi (e uno!) sono a tal prezzo vantaggioso; vendita di gratta e vinci il cui ricavato è devoluto in beneficenza che eccezionalmente per oggi (e due!) si possono acquistare al prezzo di 10 euro per 14 biglietti. D'altronde dormire non mi salva dal destino dello spazio minimo legale per le gambe: io normalmente viaggio per un paio d'ore ed è sostenibile, ma già quella volta che facemmo Roma-Oslo cominciavo ad innervosirmi intensamente per via del fastidio.
Gli aeroporti che normalmente si attraversano viaggiando Ryanair, poi, sono piuttosto deprimenti: dopo aver raggiunto 'sta landa desolata e lontana***, ci si ritrova in aeroporti piccoli, con due negozi in croce, pochi spazi per sedersi durante l'attesa, poche e discutibili opzioni per mangiare. Cerco di evitare il più possibile di mangiare in aeroporto, per questioni di gusto e, di nuovo, economiche, ma a volte è inevitabile. Nonostante la fame da lupi con la quale spesso mi ritrovo in queste situazioni, le possibilità per mangiare non stimolano di certo l'appetito; l'ultima volta che sono passata da Charleroi ho scelto il meno peggio, polpette al sugo e patatine fritte: lo so che immagine vi si è formata nella vostra testa, perché è la stessa che è affissa a "rappresentazione" nel menù da cui si può scegliere, ma è stato uno di quei casi di pubblicità ingannevole. Io che di solito fagocito il cibo, l'ho finito giusto perché non c'era altro. Pur di allontanare da me parte del calice, me ne sono rovesciata un po' addosso (true story, sono tornata a casa con una bella macchia rossa. Sulla camicia bianca.).

Voi starete leggendo e vi chiederete: ma questa, ma cosa vuole? Scrive un post intero per lamentarsi?
Chiariamo: sia ringraziata Ryanair e la possibilità che ci dà di viaggiare a poco, e di tenerci uniti (io e G., io e casa, casa e G., io e G. e casa). Solo che lo scorso weekend a differenza del solito Eurostar, per andare in Inghilterra ho preso l'aereo, e ho volato con British Airlines: al ritorno sono arrivata con largo anticipo al leggendario Terminal 5 di Heathrow, e ho avuto tempo di girarmelo un po'. Per cui sono ancora in quella fase "come potrebbe sempre essere VS come è di solito in realtà", ma mo' mi passa. Che ve lo dico a fa': a parte il negozio ufficiale di Harry Potter (sono uscita di corsa per salvare lo stipendio), era tutto un fiorire di negozi d'alta moda e di numerosi ristoranti più o meno cari.
E alla fine, io so' una ragazza semplice. Altro che Dior e Prada, il vero lusso è poter aspettare il volo così:



Yakisoba 1 - "polpette" 0.



* Colta la citazione?

** C'è anche da dire che a Roma l'aeroporto che serve Ryanair (a parte qualche volo particolare) è anche quello più vicino a casa: ha senso quindi che io atterri lì, e quindi devolva il mio danaro agli amici irlandesi, a prescindere dal minor costo.
** Di nuovo, in realtà Charleroi non è poi così più distante da Namur di Zaventem. Ma i collegamenti non sono così frequenti, ecco.

domenica 23 aprile 2017

The perks of being back(est?)


Il titolo è quello che è: non c'è niente di più di triste di un gioco di parole non riuscito ma non sono stata in grado di trovare nient'altro. Pazienza.

Ohibò, è un sacco di tempo che non scrivo: nel frattempo sono successe tante belle cose, e non è un caso che siano successe proprio nel frattempo dato che sono tornata in Italia per Pasqua.
A dir la verità non solo per le vacanze di Pasqua, ho fatto in modo di attaccarci una settimana di lavoro a Roma (mesi fa, grazie ad un uso preciso e intelligente di Google Calendar) e quindi facendo i conti sono tornata per dieci giorni. Pas mal.

Che meraviglia.

A differenza dell'anno scorso, quest'anno sono stata abbastanza soddisfatta della gestione del tempo: chiaro, è stata comunque una maratona incessante e in ogni caso si vorrebbe vedere tutti e di più, ma alla fine sono ripartita contenta del tempo trascorso con ognuno (merito spesso e volentieri di un'organizzazione avvenuta settimane prima, ma c'è stato anche qualche momento improvvisato che non è guastato affatto).

Ci sono cose bellissime che succedono sempre quando torno a casa. Andiamo di lista? Andiamo.

I tormentoni.
Quando viene pubblicata una nuova canzone, ci sono due possibilità: piace o non piace. Quando diventa un tormentone, se non piaceva si arriva ad odiarla, se piaceva spesso e volentieri purtroppo si arriva a mal sopportarla.
Ma se vivi all'estero, agli effetti del tormentone si può sfuggire, e anche in modi diversi!
Innanzitutto, non usufruendo di canali d'ascolto passivi quali radio, televisione o trasmissione di musica in luoghi pubblici (mezzi di trasporto, negozi), da qui posso scegliere cosa ascoltare, facendo clic o meno. In passato mi sono risparmiata il pulcino pio (ero a Londra in quel periodo, ed ad oggi ancora non l'ho mai ascoltata per intero) e più recentemente Rovazzi col trattore.
Inoltre, qualora mi piacesse qualcosa che è particolarmente in voga, è comunque plausibile che io ne faccia comunque un consumo consapevole, per cui dieci giorni di full immersion in Italia non sono poi sufficienti per farmi stancare: è il caso quest'anno di Occidentali's Karma, che capisco ormai faccia alzare gli occhi al cielo a tutti, ma io l'ho cantata a squarciagola a finestrini abbassati con quella gioia che solo l'averla beccata per caso alla radio mentre guidi ti sa dare. Son soddisfazioni.
La fortuna comunque gioca un suo ruolo: credo di non aver mai sentito Despacito, e mi par di capire che la probabilità che succedesse fosse piuttosto bassa (per amor di ricerca, sono andata ad ascoltarla per essere sicura. Oh che strano, un video latino pieno di culi fondoschiena: avanguardia pura, come direbbe Miranda).

Guidare.
Non posseggo macchina in Belgio, non ho intenzione di possederla, e d'altronde non ce ne sarebbe motivo: tutto ciò di cui ho bisogno è a portata di piede, per tutto ciò che non è proprio comodamente raggiungibile in qualche modo riesco a rimediare un passaggio e per muovermi nel Paese uso i treni. Si, il servizio non è dei migliori, ma d'altronde le autostrade belghe hanno le buche (le buche!) e quindi non è che sarebbe un'esperienza piacevolissima.
Quindi, niente macchina, che è pure un bel risparmio.
E però a me guidare piace moltissimo, anche se aborro come tutti il traffico e il giochetto prima-seconda-prima-folle-prima-folle-prima-seconda-pri... Fortunatamente quando torno a casa riesco quasi sempre ad evitare gli orari di punta e se la strada non è propriamente libera, quantomeno si scorre agilmente.
L'unico aspetto negativo è che la pilota di rally che è in me chiaramente soffre di non potersi sfogare durante la maggior parte dell'anno, dunque esce a piena potenza durante i periodi in cui posso guidare; autobus, vecchiette, squinzie al cellulare, tamarri col macchinone che ingombrano la strana, gente oggettivamente incapace, vecchietti col cappello: ne ho avute per ognuno di loro e anche di più, G. ad un certo punto ha semplicemente smesso di commentare la mia acidità. Scelta saggia, visto che comunque non avrei smesso in ogni caso.

Turismo.

Il fatto di essere presente per un periodo limitato di tempo fa sì che ogni passeggiata abbia quel sapore un po' turistico. Approfittando di una giornata libera, siamo andati al centro e ci siamo ritrovati sotto al Vittoriano: Madre aveva decantato le lodi della vista dalla terrazza panoramica giusto un paio di giorni prima, e dato il tempo splendido non ci siamo lasciati sfuggire l'occasione. Chiaramente non è un'esperienza facile per tutti, visto l'ascensore è bene non soffrire né di claustrofobia né di vertigini.


Però, signori miei, se ne vale la pena!


Il narratore onnisciente.
Da qualche parte ho letto una volta che non c'è modo migliore per capirsi di leggere ciò che si è scritto o di ascoltare ciò che si dice.
Sembra strano, ma ogni tanto ho la sensazione, ascoltandomi parlare con altri, di star ascoltando un narratore onnisciente, che per definizione conosce della storia più dei personaggi: la cosa strana è che io sono uno dei personaggi. In uno di questi momenti duali mi sono sentita dire che "sto bene in Belgio, ora, sto bene. Ma quando torno percepisco che qui starei meglio. Perché? Perché qui anche la minima cosa è appagante, qui è tutto a colori. A colori vividi."
Che poi l'ho sempre saputo che i colori pastello non mi stanno bene addosso.

lunedì 13 marzo 2017

Gruppi Whatsapp ed expatriés.

Diciamocelo, Whatsapp è un truc ("coso") divertente. È anche utile e direi quasi necessario nel momento in cui ci si trasferisce all'estero ma a casa non si era considerati dei sociopatici: ovvero se si avevano delle relazioni sociali e tutta l'intenzione di mantenerle.
Una particolare manifestazione merita qualche parola in più: i famigerati gruppi. Una cernita naturale avviene alla partenza, cernita a cui non sopravvivono:
  • gruppi espressamente funzionali, nati con l'unico scopo si scambiarsi informazioni pratiche relative ad avvenimenti a cui non si prenderà più parte;
  • gruppi "seri" che si riferiscono alle attività di associazioni, club sportivi e simili di cui, per cause di forza maggiore (= non possedere il dono dell'ubiquità) si smette di far parte;
  • gruppi caciaroni che riuniscono tantissime persone diversissime tra loro accomunate da qualcosa che si perde nel momento in cui ci si trasferisce.
Sopravvissuti a questa iniziale mattanza, mediamente i gruppi che restano sono le varie possibili declinazioni di gruppi con membri della famiglia (solo di quelli ne conto diec... no, 'spè, non è possib... dieci?!?!) e i talmente-tanti-che-non-mi-metterò-a-contare gruppi con gli amici, quelli veri.

È innegabile che siano un potente strumento per mantenere un discreto livello di comunicazione, e lo hanno dimostrato già in tempi non sospetti, quando ero ben piantata a Roma: "Ah, voi giovani! Ma non potete vedervi di persona come ai vecchi tempi e guardarvi negli occhi mentre vi raccontate le cose?". Molto volentieri, e quello è sempre stato l'obiettivo primario, ma spesso andava più o meno così:

E quindi niente, aspettando la congiunzione astrale necessaria per riuscire ad essere tutti nello stesso posto, nel frattempo ci si aggiornava via Whatsapp.
Chiaramente quest'utilità è cresciuta esponenzialmente da quando mi sono trasferita all'estero, dandomi la possibilità di rimanere facilmente in contatto con determinati gruppi di persone; come accennavo già qui, il tipo di comunicazione che permette un mezzo come Whatsapp (o simili), fatto di parole scritte ma anche di immagini e suoni, consente una condivisione più completa e immediata, capace di restituire anche atmosfere e sensazioni difficili da descrivere o che sono sfuggenti se non colte immediatamente. E questo, per mantenere un rapporto che vada al di là di un qualche "ciao come stai?" ogni tanto, aiuta.

Fin qui, tutto bene. Dov'è il "Ma"?
Il "Ma" nasce dal fatto che fortunatamente le persone che sono rimaste in Italia si vedono e interagiscono anche al di fuori della dimensione di uno smartphone (nonostante le situazioni poco più sopra descritte dall'immagine). E questo, Signora mia, è ovvio.
E allora capita spesso che nei gruppi vengano riprese conversazioni che sono iniziate IRL (In Real Life) e di cui quindi non conosci l'incipit; che vengano citate persone che non conosci, perché apparse dopo che te ne sei andata; che vengano commentati episodi che non sai, perché avvenuti "a casa"; che si facciano riferimenti a notizie ed aggiornamenti che gli altri pensano di averti già dato, e allora "ah no, hai ragione, ne abbiamo parlato a voce. Ora ti dico...".

Egocentricamente parlando, ogni tanto è capitato di storcere un po' il naso, perché insomma!, soprattutto se è una cosa rilevante, perché non le/gli è sembrato il caso di assicurarsi che lo sapessi? Perché non ha notato la mia assenza, nel gruppo di persone a cui lo diceva?
È un tipo di pensiero di cui non si è poi alla fine particolarmente fieri, ma ciclicamente ritorna e ristabilisce l'ordine quando pensi di essere una bravissima persona: magari ti meriti ancora solo un brava. O forse manco quello.
E poi sei tu ad essertene andata, sei tu ad aver deciso di voler andare all'estero, anche se saresti potuta restare: non hai fatto le valigie perché non avevi alternativa, le hai fatte perché sentivi la necessità di ampliare un po' di orizzonti. E non è che non sapessi cosa vuol dire, per i rapporti con la tua "vecchia vita", prendere e partire: durante quei quasi sei mesi a Londra è successa spesso la stessa cosa, e a volte a farlo eri proprio tu. Certo, allora si parlava di mesi e non di anni, i buchi di racconto si sarebbero colmati in fretta, stavolta chissà.
E poi dovresti essere contenta, ché senza queste incursioni su Whatsapp di faccende della vita vera, magari certe cose non le sapresti mai: meglio un accenno da cui ricostruire la storia che il nulla assoluto, no?

Che poi, senza i gruppi su Whatsapp... ma lo sai quanti gattini in meno manderesti in giro?

Eh!, eddai!, su!

giovedì 9 marzo 2017

Il Belga.

"Come va col francese?"

Benino, direi.
Da settembre ho cominciato un corso serio e strutturato di sei ore a settimana (3+3), che chiaramente è più adatto di un apprendimento "al volo" per i miei schemi mentali: ho bisogno di sapere quali sono le regole, così da poter riconoscere le miliardi di eccezioni (sigh!) e catalogarle nella giusta scatola. Tre ore due volte a settimana è un ritmo impegnativo, tant'è che spesso durante la pausa di dieci minuti (specialmente il lunedì, specialmente se vengo da un weekend negli Uk) ne approfitto e mi faccio un riposino. Perché se gli anni di studio all'università mi hanno insegnato qualcosa, è certamente la capacità di fare brevi e ristoratori pisolini appoggiata alla scrivania.
Un'altra cosa certamente interessante del seguire un corso di lingua per stranieri è il melting-pot in cui ci si ritrova immersi: la diversità di tradizioni e culture è sempre molto stimolante, soprattutto perché la nostra insegnante cerca sempre di trovare spunti per confrontarsi in tal senso. D'altronde è pur vero che nella mia classe ci sono delle persone... particolari, le cui gesta meriterebbero un post a parte (quasi quasi), per cui ogni tanto mi scatterebbero i cinque minuti. Poi si respira e via.

Il mio livello di comprensione del francese parlato è direi molto buono e piano piano gli si sta affiancando anche una basica ma efficace capacità di formulare frasi, anche non programmate in anticipo: soprattutto, la necessità di soddisfare nuove esigenze man mano che la mia permanenza qui si allunga (visite mediche, iscrizioni in piscina, abbonamenti al cinema, concerti) ha fatto sì che perdessi un po' di quel mutismo determinato dal pudore di non voler commettere errori.
Stica, insomma.

Ogni tanto però devo ricordarmi che in realtà io non sto imparando il francese, ma il francese belga: nonostante il sempre più in voga "eh ma vabbè, ma tanto è come se fossero Francesi", esistono delle interessanti differenze tra le due lingue, una delle quali in particolare può creare seri problemi di organizzazione.


n.d.a. E poi qui si è consumato il "dramma": ho scritto tutto il resto del post, con il mio bravo elenchino tutto carino tutto fru fru e poi, alla fine, facendo una ricerca per lo spelling di una parola, ho trovato questo post . Più preciso, più completo, più tutto. E niente, quindi vi lascio il link, perché davvero non mi sembrava il caso di scrivere un doppione, essendone conscia.

Se vi chiedevate dove fossi finita, sappiate che questo epic fail mi ha tolto qualunque spunto creativo. Recupererò.





giovedì 2 febbraio 2017

Domenica.

Ho trasformato la scorsa domenica in un appuntamento lungo un giorno.
Con la persona più importante.

Ho puntato la sveglia ad un orario che mi avrebbe permesso di restare sotto il morbido abbraccio del piumone ancora per un po', senza traumi da risveglio improvviso.
Sono andata ad ascoltare un concerto della corale di una mia amica e ho canticchiato silenziosamente i molti brani che conoscevo (quanto sono più interessanti le parti dei contralti!).

C'era un bel sole, ne ho approfittato per andare a scattare un po' di foto per imparare a conoscere una reflex che mi ha aspettata per troppo tempo: ho preso una bici del servizio di bike-sharing, per spingermi più in là di dove sia mai stata, per fare anche un po' la turista. Ho preso freddo, tanto, soprattutto perché furbescamente non avevo i guanti.
Ed ho sperimentato quella sensazione di dialogo interiore: andiamo ché fa freddo, ancora dieci minuti, riprendiamo la bici così arriviamo prima, no torniamo a piedi, ma come a piedi, così arriviamo al ponte col tramonto, ma fa freddo, ma il tramonto!, ... , dai che poi ti porto a prendere una bella cioccolata calda.

E concedersela!, 'sta cioccolata calda, ché cedere ad un vizio ogni tanto è più una coccola che un peccato: cioccolata calda alla soia (vergognarsi quasi a chiederlo), il latte ci fa male ma anche dire "eh si, niente panna" poi non scherza.

E poi c'è sempre una prima volta: ieri mi sono portata al cinema, da sola. Ho "scoperto" un cinema in cui proiettano i film in versione originale: non c'è un posto assegnato e tutti corrono per prendere il posto per sé e per amici in arrivo, ma essendo da sola ho trovato facilmente un sedile che era rimasto vuoto, in un buon punto. E poi intendiamoci: che differenza fa andare al cinema da soli o con qualcuno? Quando si spengono le luci si è soli con la pellicola, che importa di chi ci è a fianco? Cambia solo il dopo, il rientro verso casa: ma anche camminare sola in vie poco frequentate, pensando alla calda cena che ci aspetta, ha un suo perché.

Cresciamo con l'idea che la solitudine sia una cosa negativa, ma come tutte le cose della vita, dipende dalla quantità e dalla qualità.
Ho trasformato la scorsa domenica in un appuntamento lungo un giorno, con la persona più importante: me. Note to self: farlo più spesso.
Senza dimenticare le intere domeniche passate a dormire, ché anche quelle non sono mica male.

giovedì 26 gennaio 2017

Fantastic veggies and where to find them.

Venerdì è venuto a trovarmi G. Come da consuetudine, mi sono avviata verso la stazione del treno per fare insieme almeno l'ultimo tratto a piedi, giacché essendo sprovvista di macchina non posso alleggerirgli il viaggio in alcun modo e allora almeno lo "vado a prendere".
Indovinate un po'?
Il treno era in ritardo, di ben venti minuti: colpa mia, avrei dovuto controllare prima di uscire di casa e invece mi sono fidata. Il che è strano, considerando che non ho proprio alcuna base per farlo.
Per aggiungere furbizia alla furbizia, nonostante il freddo gelido ho ben pensato di uscire col cappotto ma vestita "da casa", che in particolare vuol dire con i leggings con cui faccio yoga: notoriamente sono piuttosto leggerini e per niente isolanti, "ma tanto vado e torno, non faccio neanche in tempo ad infreddolirmi".
Come no.
Arrivata in tempo per il treno in orario, mi sono trovata con venti minuti di attesa davanti a me, in una stazione che è gelida e, seppur chiusa, caratterizzata da una certa giannetta non indifferente. Per un attimo ho avuto la malaugurata idea di sedermi sulle panchine di metallo, ma ho resistito quei pochi secondi necessari affinché il gelo si trasmettesse attraverso i pantaloni inadeguati e poi mi sono alzata, andando verso la cabina di un ascensore che, se non altro, proteggeva da un po' di corrente.
Tutto questo per dare un po' di contesto: stazione, undici di sera, lontana dai pochi astanti che essendo giustamente vestiti in modo appropriato potevano godersi il conforto di stare seduti.
E vabbè, chi è causa del suo mal...

"Scusami, sai: le donne quando scelgono un uomo sono sicure della loro decisione, anche perché un uomo è sempre uguale. Gli uomini invece cambiano idea, prima gli piace una, poi un'altra, poi un'altra ancora..."
Buona nuova: l'ascolto periferico del francese sta migliorando.
Cattiva nuova: un personaggio un po' strano, bassetto, non proprio pulitissimo e dall'alito leggermente alcolico ha cominciato a parlarmi. E ce l'ha con me, non c'è possibilità d'errore.

Ora, data la situazione ho pensato di sfruttare a mio vantaggio la non diffusione delle lingue straniere da queste parti: ho biascicato un "Non parlo francese" col più marcato degli accenti e sperato che la cosa finisse lì, come di solito accade.
Ma no, lui volevo davvero parlare con me. Ma davvero, eh?

"Da dove vieni?"
"Italia"
E pensa un po' tu il caso: di quale lingua sapeva qualche parola?
Da quel momento in poi è stato un discorso piuttosto confuso, soprattutto perché, come ho capito dopo, le parole in italiano che conosceva erano principalmente verdure: si è dunque lanciato in un'avventurosa metafora tra i tipi di donne (...) e i differenti ortaggi.
Credo mi abbia dato della carota.
A nulla è valsa la mia faccia spaesata (inizialmente finta perché fingevo di non capire, mano a mano più autentica perché invece capivo cosa diceva ma non il suo senso), a nulla i miei désolée con espressione contrita, lui è andato avanti imperterrito. Poi ha nominato del radicchio (proprio in italiano, "radicchio") e dello zucchero, ma nel frattempo stava arrivando il treno ed ero distratta, quindi l'ho salutato e poi ciao. Avessi saputo che la barriera linguistica non avrebbe funzionato, a questo punto avrei cercato di approfondire la sua teoria sugli uomini e le donne, per cui sembrava davvero appassionato.

O, che è più importante, se fosse stato lucido gli avrei fatto un sacco di domande, visto che poi a "mente calda" ho realizzato: per la prima volta ho incontrato qualcuno che lavora con le barbabietole da zucchero.
... Ma allora non esistono solo sui libri di geografia delle medie...

domenica 22 gennaio 2017

Cari "amici" vi scrivo.

A volte mentre scorro la home page di Facebook appaiono dei contenuti di pagine o profili discutibili: succede quando un "amico" commenta o aggiunge una reazione a quel particolare post, e l'algoritmo di Mark fa sì che compaia in giro perché a priori potrebbe essere di mio interesse.
Chiariamo subito un punto, prima che si levi il grido di "ma guarda questa quant'è snob"; scorrendo la lista delle pagine a cui io stessa ho messo mi piace, non è che necessariamente troviamo solo elementi culturali e d'alto livello: parecchi sono legati a blog che parlano di trucchi, cura della pelle e capelli, ci sono youtubers, serie TV, qualche associazione a cui il like era dovuto per un motivo o per l'altro, un po' di cose sparse di cui magari non è che mi interessi molto ma sono relative ad attività di amici o di amici di amici. Quindi non è che io dica che su Facebook si debbano seguire solo filosofi e scienziati.
Però, se mi capita di vedere un post di una rivista di gossip, so di certo che non è direttamente responsabilità mia, se mi compare qualcuna delle Kardashian, so che è perché qualcuno tra i miei contatti evidentemente è interessato; etc etc.

Certi contenuti stonano talmente tanto con i miei interessi, con i miei gusti e con la mia visione delle cose che da qualche tempo la curiosità prende il sopravvento e una volta capito più o meno di cosa si sta parlando (se non è evidente ad una prima occhiata), vado a vedere il feedback che la persona che ho tra i contatti ha lasciato.

Ecco, vorrei non aver mai cominciato a farlo.

Una commenta sotto una notizia gossippara riguardante un aborto che "spiace per la creatura, ma di lei [la madre] non me ne può fregare di meno", un altro che augura la morte ad un ragazzo che fa video credendoci davvero (troppo) o trollando tutti*, altri ancora che si ergono a paladini del rispetto e dell'uguaglianza insultando e auspicando se non la morte cose piuttosto spiacevoli a questo o quel personaggio "rilevante". E sono solo i primi esempi che mi vengono in mente.


Voi mi fate paura, seriamente.


Me ne fate perché sentite il bisogno di aggiungere un vostro commento non costruttivo, non gentile e sostanzialmente inutile ad una notizia di gossip (... che già di per sé...); perché quindi pensate che serva a qualcuno; perché chiaramente la cosa in sé è per voi molto rilevante al punto da non riuscire ad esimervi dal commentarla.

Me ne fate perché spero abbiate perso il senso delle parole che scrivete, per cui un video che può essere fastidioso di una persona che chiaramente ha un ego smisurato, ecco, secondo voi un video del genere  giustifica un augurio di morte: "eh ma si fa per dire, mica si intende davvero" - col cavolo, le parole hanno un significato ben preciso e alcune sono davvero inequivocabili. E sappiate che è come di solito si giustifica chi si macchia di cyber-bullismo. Se invece le intendete davvero, è chiaro che il vostro problema va al di là dell'obiettivo di questo post.
Me ne fate perché siete talmente corrosi dal livore e dall'indignazione (a volte inevitabili, arriverei a dire) per le dichiarazioni di qualche politico populista che non solo gli date la soddisfazione e ancora più visibilità, ma vi abbassate addirittura al suo livello, andando ad infangare anche quei valori la cui difesa, forse, vi ha inizialmente posti davanti alla tastiera. Credete davvero che a forza di insulti cambierete le loro idee? O quelle di chi lo vota? Se il dialogo normale, pacato e razionale non funziona, pensate davvero che faccia qualche differenza un vostro commento arrabbiato? Avete mai pensato che potrebbe invece non fare altro che ottenere l'effetto contrario, al grido di "tanti nemici tanto onore"?

Me ne fate perché sembra che abbiate perso il contatto con la realtà, perché vorrei davvero vedere se riuscireste a dire le stesse cose a voce e con la stessa tranquillità; perché se la schermatura dello schermo vi protegge dal confronto faccia a faccia, lo stesso schermo espone un lato di voi che forse non solo sarebbe bene nascondere, ma anche imparare a domare.

Se vi sentite chiamati in causa, probabilmente mi riferisco a voi.
Se vi siete offesi, reagite come preferite.

Sono io la persona dalla morale perfetta, che non si lascia mai sfuggire una parola maligna o che si fa sempre e solo gli affari suoi? Ovviamente no, anche se ogni giorno si cerca di migliorare, ma capiamo bene che c'è un abisso, tra questi comportamenti (e non per giustificare i miei).

La mia consolazione è che, mediamente, certi episodi vedono protagoniste persone che non sono Amici davvero, nella vita reale, o persone che stimo; sono persone che per necessità, per trascorsi passati (come gli anni delle scuole) o anche un po' per caso sono tra i miei contatti. Questo ha due conseguenze ben precise: consolidare la fiducia che ho nelle persone a cui tengo o che stimo, e rendere più facile il processo di oscuramento dei contributi di tali soggetti.


"Perché non li cancelli direttamente?"
Beh, perché non sai mai quando potrai voler andare a farti un po' di fatti loro.





Ops.



* non chiedetemi chi sia il tizio, ho cancellato l'informazione dalla mia testa all'istante.

sabato 7 gennaio 2017

Foto metafora


Questa mattina mi sono svegliata con calma, mi sono alzata con ancora più calma, mi sono lavata vestita truccata, ho provato ad uscire e ho realizzato che aveva nevicato, sono tornata indietro a cambiarmi le scarpe, sono ri-uscita, sono andata a comprare un paio di cose approfittando dei saldi, ho sbrigato delle commissioni.
Sono tornata a casa per una strada leggermente più lunga, seguendo il corso del fiume, sia perché volevo scattare una foto di uno scorcio carino con la neve, sia perché sospettavo non ci fosse stato molto passaggio, per cui la neve sarebbe stata ancora intonsa e avrebbe dato maggior sostegno al passo rispetto all'infida poltiglia ghiacciata nel resto del centro.


Ho scattato anche questa (niente di che):



L'ho scattata in un posto freddo, dove tutto era nascosto da un leggero ma evidente strato di neve: bello ma scostante, che richiede lavoro per essere tolto e arrivare davvero a toccare le cose.
L'ho scattata dove il mio incedere era insicuro e traballante.
L'ho scattata, nonostante l'insicurezza, con i piedi ben piantati per terra e la schiena dritta ("sennò si vede la panza!").
L'ho scattata non sapendo bene perché, ma guidata dallo spirito del "Perché no?".
L'ho scattata essendo completamente da sola. Ma concentrandomi avrei percepito la presenza lontana di altri.
L'ho scattata portando dei pesi, e sapendo li avrei portati ancora per un po'.
L'ho scattata volendo essere da un'altra parte, accanto a del calore, ma in fondo anche un po' contenta di essere lì.

L'ho scattata, e poi ho pensato che il dove, il come, il quando fossero una perfetta sintesi. Perché io stamattina mi sarò svegliata con calma, alzata con ancora più calma, lavata vestita truccata, sarò uscita e andata in giro come se fosse un giorno qualunque, ma oggi segna un anno.

Il primo.
Il primo di quattro.
Daje.