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mercoledì 4 gennaio 2017

Come uccidere il Bianconiglio: parte 2 (la pratica)

Il metodo migliore, nella pratica, per uccidere il Bianconiglio consiste di due parti: l'attacco cardiaco da ansia e quello da sforzo fisico sovrumano nel tentativo di riparare ad un ritardo. E si, i treni Belgi provocano entrambi spesso e con leggiadria.
Avrei mille piccoli aneddoti al riguardo, ma si assomigliano più o meno quasi tutti. Giusto per dare un'idea accennerò brevemente a quando, nel disperato tentativo di prendere l'ultimo treno utile per essere in orario ad un seminario, correndo con i tacchi sui dissestati pavé namurensi e scivolosi per la pioggia, mi sono spiaccicata per terra con davvero poca grazia lungo la strada principale gremita di pendolari; la caviglia quella sera era il quadruplo delle sue normali dimensioni, e ancora oggi a distanza di più di due mesi, durante certi movimenti particolari decide di farsi sentire.
"Che c'entrano i treni?"
C'entrano per il fatto che prima di iniziare a correre, a cinque minuti a piedi di distanza dalla stazione e dall'orario di partenza, avevo controllato sul sito delle Ferrovie se il treno fosse in orario, e lo era, per cui mi ero lanciata in una corsa disperata.
Peccato che poi sia arrivato con dieci minuti di ritardo. Come fa un treno in perfetto orario cinque minuti prima ad accumulare dieci minuti di ritardo?! Gli ha attraversato i binari una mandria di Mammut?

Tra tutte le possibili storie, quella famosa volta merita di essere raccontata per bene.
Il contesto descritto un paio di post più in là dovrebbe aiutare a capire come mai, quella famosa volta, io sia stata davvero di un'ingenuità notevole.
Per prendere l'Eurostar che attraversa il tunnel della Manica è necessario effettuare una sorta di procedura di check-in: controllo del biglietto, doppio controllo dei passaporti, passaggio sotto al metal detector et similia. Per questo, è richiesta la presenza al terminal almeno mezzora prima rispetto all'orario di partenza, pena trovarsi davanti al check-in chiuso. Conoscendo la situazione dei treni nazionali, si fa sempre in modo di essere lì almeno un'ora prima, per poter far fronte a qualunque problema possa verificarsi durante il tragitto.
Quella famosa volta, il treno per Bruxelles si è presentato a Namur in perfetto orario; avrei dovuto pensare sospettosamente in perfetto orario, ma c'è un motivo se citavo l'ingenuità. Piacevolmente stupita, mi sono accomodata in un bel posticino, ho preparato l'assetto da viaggio (via il cappotto, fuori il biglietto e qualcosa da leggere, le solite cose insomma) aspettando di ripartire.
Aspettando di ripartire.
Cinque minuti dopo l'orario di partenza, il capotreno annuncia un ritardo di… cinque minuti!, dovuto al fatto che ci sono lavori sulla linea e un tratto è a binario unico, per cui dobbiamo aspettare che arrivi un treno in direzione contraria.
I minuti diventano dieci, poi quindici. Il capotreno annuncia un ritardo di… quindici minuti! (ma perché continua a dirci cose che già sappiamo?!) perché stiamo sempre aspettando quello stesso treno, il quale è in ritardo.
Nel frattempo i minuti diventano velocemente venticinque. Venticinque minuti fermi, al binario. Un treno che era perfettamente in orario, magicamente, ha accumulato venticinque minuti di ritardo. Venticinque, l'ho scritto?
Nel frattempo io avevo virtualmente perso l'Eurostar, considerando il tempo che in stazione ci vuole per arrivare al terminal. Di certo non ero rimasta con le mani in mano e avevo controllato tutte le possibili alternative: cambiare il biglietto per prendere il treno successivo sarebbe costato 200 euro, l'unico passaggio plausibile su Blablacar era offerto da un soggetto decisamente poco raccomandabile (solo recensioni iper-negative e sospetti passaggi multipli), il primo autobus disponibile sarebbe partito la sera tardi (svariate ore dopo) e in ogni caso arrivare la mattina dopo avrebbe sconvolto i nostri piani e la mia schiena. Perché il viaggio in autobus si fa, eh!, perché si fa tutto, ma non si augura e possibilmente si evita; in più, mi era già toccato due settimane prima. Queste, dunque, le non alternative. Non prendere quel treno avrebbe comportato svariati danni e una ancora non definita soluzione.
Dopo i famosi venticinque minuti, improvvisamente, il treno parte: il capotreno decide che quello è il momento giusto per informarci che in realtà non solo abbiamo aspettato il primo treno in ritardo, ma già che c'eravamo ci sembrava brutto fare 30 ma non 31 e quindi ne abbiamo fatto passare anche un altro.
Il nervosismo e il senso di impotenza (da avere i lacrimoni quasi sul punto di rotolare giù dagli occhi) mi hanno fatto buona compagnia durante il tragitto: arrivata in prossimità dell'ultima stazione di Bruxelles, mi sono preparata davanti alle porte saltellando sul posto, preparandomi allo sprint più importante della mia vita (il che dice già quale ruolo infimo abbia la corsa nella mia vita).
E poi ho corso.
Ho corso come se ogni secondo in meno impiegato fosse pari ad un gattino in meno investito per strada, come se ogni falcata abbastanza ampia implicasse un bignè al cioccolato gustato ma senza le calorie, come se ogni gradino percorso a velocità supersonica rischiando la morte per caduta e conseguente spezzamento del collo mi garantisse un anno in più senza rughe.
Se questa descrizione, nella vostra testa, si è trasformata in una corsa concitata ma dignitosa, vi riporto immediatamente alla realtà: non solo avevo i tacchi, che per quanto comodi possano essere e per quanta destrezza una possa avere non daranno mai la leggiadria e l'agilità di un paio di scarpe senza tacco, magari da corsa; non solo i tacchi, dunque, ma anche uno zaino mediamente pesante sulle spalle. E nessuno riesce a correre con uno zaino non tecnico sulle spalle senza sembrare una gallina azzoppata. Aggiungeteci le braccia aperte per mantenere la stabilità, la faccia rossissima, il rantolo disperato paragonabile a quello di un Boxer (cane) sotto sforzo, capiamo subito che il quadro era piuttosto ridicolo: l'espressione affannata e disperata non deve aver di certo aiutato.
Arrivata in prossimità del terminal, vedo in lontananza lo schermo sul quale vengono fornite le informazioni riguardanti i treni in partenza: il primo nella lista, che è sicuramente il mio, ha accanto una bella scritta. Rossa. E rosso non è mai un bel segno.
Più per inerzia che per forze residue continuo a “correre” (i podisti mi scuseranno, di certo non era una corsa la mia, quanto più uno scostumato succedersi di passi veloci) per scoprire che quei furboni dell'Eurostar hanno deciso che il colore più appropriato per “Check-in aperto”, che quindi vuol dire “Dai! Va tutto bene! Non hai ancora perso il treno e un sacco di soldi!” è il rosso. Il ROSSO. Chi è il sadico che ha deciso questa cosa? Non sarebbe meglio un più universalmente riconosciuto verde, per un messaggio positivo? Chi ci prova gusto a mandare messaggi contraddittori?

Quella famosa volta, due giorni dopo ero di nuovo sull'Eurostar per tornare a Bruxelles. Per la prima (e finora unica) volta, anche l'Eurostar decide di arrivare in ritardo di buoni venti minuti: me ne restano tre per scendere, districarmi tra la folla, uscire dalla zona internazionale, raggiungere il binario del penultimo treno per Namur (essendo quello successivo un'ora più tardi). Cinque minuti sarebbero sufficienti per arrivarci di buon passo, ma con tre la situazione è decisamente sul filo del rasoio.
E allora, di nuovo, corro; più per abitudine ormai che per vera motivazione, corro in una corsa contro il tempo per non perdere il regionale.
Il quale è poi partito con dieci minuti di ritardo.
Ah, che ve lo dico a fare? Fino a poco prima era dato perfettamente in orario.

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